Atto di violenza

Atto di violenza

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Noir americano, ma stavolta il crimine è la guerra, e la posta in gioco la propria coscienza. Traumi del passato, etica, senso di colpa, revenge movie: Atto di violenza di Fred Zinnemann è uno splendido puzzle dal passo tragico, cupo e (quasi) senza speranza. In dvd per Sinister.

A Santa Lisa, piccola cittadina californiana, giunge Joe Parkson, un misterioso uomo zoppicante che chiede notizie di Frank Enley. Durante la Seconda Guerra Mondiale i due hanno condiviso l’esperienza del campo di prigionia in Germania, e Joe medita vendetta ritenendo responsabile l’ex-amico di una carneficina attuata dai tedeschi durante un tentativo di fuga. Terrorizzato dall’apparizione di Joe, Frank ammette a sua moglie Edith le proprie colpe in tempo di guerra, e si avvia verso una tormentosa discesa tra i fantasmi della sua coscienza… [sinossi]

Noir che più nero non si può, Atto di violenza (1948) di Fred Zinnemann ha innanzitutto il pregio di utilizzare atmosfere da cinema di genere per applicarle a una diversa materia narrativa. Stavolta il noir è quello della memoria e del passato, i crimini non hanno niente a che fare con denaro, malavita e illegalità, bensì con la storia e l’etica. Il nemico è dentro gli antagonisti centrali, un passato comune che a differenza del presente non può essere modificato. Resta come una condanna indelebile, a tormentare psicologie e vissuti, a condizionare il presente nonostante enormi sforzi di impossibile elaborazione o rimozione. È infatti nel dramma della Seconda Guerra Mondiale, col suo lungo strascico di traumi in una normalità apparentemente ristabilita, che il film di Zinnemann affonda le sue radici.
Teso e serratissimo nei suoi ritmi (appena 82 minuti, tutti avvitati praticamente intorno a un unico tema narrativo), Atto di violenza assume le forme di un revenge movie in cui il nodo da sciogliere si è generato in un campo di prigionia tedesco a seguito di un episodio di delazione. Il reduce Joe, unico sopravvissuto a un tentativo di fuga dal campo e rimasto storpio a vita, torna a perseguitare il suo ex-amico Frank, che a suo tempo fece da spia presso i tedeschi causando la tragedia. Frank si è rifatto una vita, ha moglie e un figlio ed è una personalità stimata e rispettata nella sua piccola comunità di provincia. Al seguito di Joe giunge invece in città l’ombra lunga del passato, che costringe Frank a un percorso di perdita e redenzione.

Fin dal suo incipit Atto di violenza si lega a un linguaggio fortemente simbolico (ancor prima del titolo, appare enfaticamente una pistola), con chiara aderenza ad atmosfere post-espressionistiche. Giocando splendidamente sui contrasti forti tra bianco e nero, che rimandano a un’ambigua e sfumata sfera etica, Zinnemann stringe spesso gli spazi della scena intorno ai suoi personaggi, tagliando fuori gli ambienti o mettendoli in problematica relazione con le figure umane. Lo spazio è spesso ridotto e angoscioso, le luci si spengono o si accendono seguendo sapientemente gli stati emotivi e le agnizioni dei personaggi. Ovviamente il maggior travaglio espressivo si concentra a poco a poco intorno alla figura di Frank, che da riconciliato padre di famiglia si trova ad affrontare un passato faticosamente accantonato. Secondo un’inesorabile catena narrativa, Frank si addentra in una vera e propria discesa agli inferi di se stesso, a spietato confronto con la propria coscienza e il senso di colpa.
Il film lo segue anche nel significativo mutare degli ambienti; dal confortevole nido della villetta americana e della pesca al lago, ai bassifondi di Los Angeles, dove l’uomo finisce per impastarsi con figure più tradizionalmente da noir (ubriaco e disperato, chiede più o meno consapevolmente di essere difeso da una prostituta, un ambiguo avvocato e un killer di professione).

Di nuovo Zinnemann allarga e stringe intorno all’angoscia del protagonista, dimostrando grande sapienza nell’uso espressivo degli spazi scenici. Basti pensare a uno dei più intensi climax emotivi, quando Frank, sempre meno lucido, rivive in un tunnel ferroviario le urla dell’eccidio dei compagni di prigionia; qui Zinnemann gioca sull’eccesso della prospettiva, conferendo angosciosa profondità alla fuga visiva del tunnel. Altrove, Atto di violenza mette in campo una notturna sinfonia urbana fatta di vento e polvere, in cui in qualche modo i tormenti della psiche sono proiettati all’esterno negli ambienti che li accolgono.
In senso più macroscopico, Zinnemann non rifiuta nemmeno una fin troppo dichiarata struttura narrativa “a specchio”: entrambi gli antagonisti principali sono affiancati da due ancillari figure femminili, ridotte più o meno alla funzione di aiutanti coscienziose. Così come è in tutto rispettata una macrostruttura di salvifica redenzione, che vede Frank affrontare una seconda possibilità in cui poter cancellare le macchie del passato. In questo il finale è più che emblematico, con annesso senso di riconciliazione che vuol forse mettere una pezza alla disperazione senza scampo di tutto il racconto.

Ma nella cifra dell’angoscia e della paranoia Atto di violenza mostra uno splendido apparato espressivo, del tutto funzionale al suo scopo; per tutta la prima parte Zinnemann si affida al senso di minaccia che sprigiona dalla figura di Joe, a cominciare dalla sua claudicanza lombrosiana. Per rapidi spostamenti la villetta di Frank e famiglia si trasforma da confortevole rifugio in asfissiante prigione, dando vita a un intenso tema di persecuzione. In seguito, con l’ammissione di colpa da parte di Frank le solidità etiche si frantumano, il Bene e il Male si mescolano e finiscono di esistere. È l’universo noir, per l’appunto, fatto di pessimismo e crisi delle certezze, che viene a mettere in discussione, in ultima analisi, un intero sistema di valori.
Nel 1948, anno di realizzazione del film, il trauma della guerra era ancora fresco, ma invece di celebrare gli entusiasmi postbellici Fred Zinnemann è tra i primi ad affrontare i traumi della memoria, ad accantonare i trionfalismi e a concentrarsi sullo spinoso tema dell’etica di guerra, fino a metterne in crisi la sua stessa fondatezza.
Può esistere un’etica di guerra? Atto di violenza interviene, tramite un racconto a suo modo esemplare, per gridare un secco no a chiare lettere (del resto, il tema antibellico e l’intento di memoria storica saranno una costante dell’opera di Zinnemann, da La settima croce, 1944, a Odissea tragica, 1948, al cineromanzo antimilitare per eccellenza Da qui all’eternità, 1953).
La moralità della guerra non fa che corrompere altre moralità, dove la pelle e la fame possono spingere a compiere atti nefandi. Zinnemann sprofonda in questo abisso di angoscia insieme ai suoi personaggi, allestendo intorno a loro un clima di incessante perdita e disagio. Del resto, aver costruito un intero racconto sul trauma della delazione sembra presagire quel che di lì a poco esploderà come un’ulteriore tragedia nazionale con le cupe pagine del maccartismo. È arduo insomma avere fiducia in un mondo, materiale e di valori, edificato sopra a una tale immane tragedia, il cui peccato originale è stato innanzitutto la corruzione delle coscienze. La rimozione non basta, la coscienza prima o poi tornerà sempre a chiedere il suo conto, con o senza la personificazione di un livoroso nemico zoppicante.

Elegante e appassionante, Atto di violenza è sorretto da un brillante cast d’attori, in cui spiccano due volti non ricordatissimi ai giorni nostri: Van Heflin (uno splendido Frank) e Robert Ryan, affiancati da Janet Leigh e Mary Astor. Avvinti al medesimo destino in cui un trauma condiviso fa da collante. Una tragedia allegorica, che può trovare forse una possibilità di espiazione nel più alto sacrificio. Che a sua volta, d’altra parte, costituisce tragedia.

Extra: galleria fotografica.
Info
La scheda di Atto di violenza sul sito di CG Entertainment.
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