Mori, the Artist’s Habitat
di Shūichi Okita
Il cinema di Shūichi Okita assomiglia in qualche modo al concetto d’arte e di vita del pittore Morikazu Kumagai, protagonista di Mori, the Artist’s Habitat: un’opera minimale, contemplativa, attenta ai minimi dettagli di una natura semplice e multiforme allo stesso tempo. Un’elegia ironica e dolcissima, al Far East Film Festival di Udine.
Il giardino di Morikazu
Qualche giorno nella vita del novantaquattrenne Morikazu Kumagai, tra i massimi pittori del Novecento giapponese, che negli ultimi trent’anni della sua vita non lasciò mai il giardino-giungla che aveva lasciato crescere attorno alla sua casa e che contemplava per ore, in osservazione della minuscola natura che vi prendeva vita… [sinossi]
I titoli di testa di Mori, the Artist’s Habitat (l’originale giapponese suona come Mori no Iru Basho), presentato alla ventesima edizione del Far East Film Festival di Udine in una proiezione mattutina – che ha nociuto in parte al rapporto tra il film e un potenziale pubblico di massa: peccato –, permettono allo spettatore di entrare in un mondo “altro”. È il mondo di Shūichi Okita, che i frequentatori della kermesse friulana hanno imparato a conoscere nel corso degli anni, grazie ai vari The Woodsman and the Rain, A Story of Yonosuke, Ecotherapy Getaway Holiday e Mohican Comes Home. Un mondo fatto di ironia gentile e sommessa, toni perennemente pacati, un minimalismo che non si fa mai maniera, e uno sguardo metà scientifico metà umanistico sui suoi protagonisti, alla ricerca del punto d’incontro tra il loro mondo e quello naturale, così vicino eppure in maniera ineluttabile così lontano. Uno sguardo e una ricerca che assomigliano a ben vedere al percorso umano di Morikazu Kumagai, pittore non particolarmente noto in occidente ma che ha segnato in profondità l’immaginario e la filosofia del popolo giapponese. Morto quasi centenario nel 1977, Kumagai ha rappresentato un vero e proprio caso nel rutilante e progressivo incedere del Giappone post-bellico: mentre la società attorno a lui mutava a velocità sorprendente, inseguendo la modernità occidentale, Kumagai rallentava il ritmo già pacato della sua vita d’artista. Mentre il Giappone era affascinato dall’elettronica e dalla tecnica, Kumagai si lasciava sedurre dalla natura, rinchiudendosi sempre di più in un bozzolo protettivo, al punto da non uscire più di casa per un trentennio. Solo lui, la moglie, parenti e visitatori ossequiosi e pazienti. Ma, soprattutto, quel giardino di sessanta metri quadrati che Kumagai ha lasciato crescere selvaggio, senza interporsi in alcun modo al flusso della natura.
Okita si perde a sua volta in quel giardino, disseminando Mori, the Artist’s Habitat di dettagli di insetti e altri animali: ecco dunque il primissimo piano di una mantide religiosa, e il muoversi solo all’apparenza caotico di salamandre, lucertole, gatti, pesci rossi, farfalle, raganelle, e quelle formiche che il novantaquattrenne Kumagai osserva con l’occhio di chi non può far altro che guardare. Per scoprire, forse per capire. Sicuramente per trovare un proprio posto adeguato nel mondo. Come il pittore, anche Okita sfoggia uno stile e un ritmo anti-moderno, rarefatto, quasi che nelle immagini che si susseguono l’una dopo l’altra fosse concesso di riconoscere il senso di qualcosa di profondo, di universale. Anche l’assistente del fotografo che sta facendo un servizio su Kumagai cerca di immergersi in quel mondo, nonostante il terrore puro per gli insetti. Ma il segreto del giardino non è svelabile, se non nel proprio intimo.
Non è un film biografico, Mori, the Artist’s Habitat, o per lo meno non è quella la sua reale funzione: certo, permette di venire a conoscenza di una figura d’artista rimasta nell’ombra al di fuori della terra natia, ma il centro del discorso si muove altrove. Il racconto di Kumagai è quello di un uomo anziano che anche a pochi passi dalla morte – che rifiuta di seguire, per rimanere attaccato alla terra, nell’unico frammento onirico rintracciabile nel film – non smette la propria ricerca, il proprio studio, la personale difesa di un microcosmo (è proprio il caso di dirlo) che non avrebbe scampo senza la sua amorevole cura. Perché arriverà un condominio a coprire il sole, e quindi a uccidere la vita che quel giardino preserva.
Mori, the Artist’s Habitat è un film gentile e allo stesso tempo pervaso di un sottile dolore, un sentimento di stanchezza e di sconfitta che si può sommergere ma non è possibile annullare in modo completo. Quel dolore che Kumagai ricaccia indietro, al punto da rispondere alla moglie che afferma di non voler vivere una seconda volta la propria vita, per non provare di nuovo i dolori patiti, con un secco e per niente naïf “io invece la vivrei di nuovo. Mi piace vivere”.
Nel ritratto di Morikazu Kumagai Okita racchiude non solo una visione del mondo, ma anche del tempo e dello spazio. Una visione di quel che è possibile vivere, e di quanto la semplicità del quotidiano, e forse persino la sua ripetitività, siano concetti spesso sviliti, o non completamente compresi dalla maggioranza delle persone. Una lettura dell’esistente che potrà apparire ingenua – il pittore ignora perfino che esistano i treni ad alta velocità, e così accoglie un locandiere che vorrebbe che lui disegnasse gli ideogrammi dell’insegna del suo hotel come si trattasse di un eroe, venuto a trovarlo da chissà quale landa isolata – ma che ha il potere di comprendere la natura, e di specchiarvisi. Quel potere di cui è sprovvisto anche l’uomo più potente del Giappone, l’imperatore Hirohito, come dimostra il sapido e coraggioso incipit. La casa-giardino di Kumagai non può frenare il mondo che vi cresce attorno, e rimarrà sempre più schiacciata e isolata. Ma in quella ripresa dall’alto che conclude il film, in quel totale – l’unico – in cui è possibile comprendere davvero gli spazi in cui ha vissuto un uomo per decenni, è racchiusa una poesia così dirompente da scuotere il cuore e la mente. Shūichi Okita conferma il suo talento cristallino con un’elegia ironica e dolcissima, dimostrando a quarant’anni appena compiuti di essere uno dei nomi indispensabili del cinema giapponese – e non solo – contemporaneo.
Info
Il trailer di Mori, the Artist’s Habitat.
- Genere: commedia, drammatico
- Titolo originale: Mori no Iru Basho
- Paese/Anno: Giappone | 2018
- Regia: Shūichi Okita
- Sceneggiatura: Shuichi Okita
- Fotografia: Yuta Tsukinaga
- Montaggio: Takashi Sato
- Interpreti: Kaito Yoshimura, Ken Mitsuishi, Kirin Kiki, Mitsuru Fukikoshi, Munetaka Aoki, Ryo Kase, Tsutomu Yamazaki
- Colonna sonora: Kensuke Ushio
- Produzione: Nikkatsu
- Durata: 99'
