Door Lock

Door Lock

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Può un semplice lucchetto, per quanto tecnologicamente avanzato, tenere fuori dalla porta di casa il Male? Se lo chiede con il thriller Door Lock il sudcoreano Lee Kwon. Al Far East di Udine.

A letto col nemico

Kyung-min è una giovane donna che vive a Seul, dove ha un lavoro precario in una banca e abita da sola in un monolocale in cui non si sente per niente al sicuro: la ragazza da qualche tempo pensa infatti di essere perseguitata da uno stalker… [sinossi]

Case microbiche in alveari per umani, telecamere di sorveglianza che ci scrutano dalla metropolitana all’ingresso del nostro appartamento, porte con aperture digitali e cellulari come protesi dei nostri sensi: il futuro da parecchio tempo si è impiantato nella realtà. E parecchio cinema dell’Estremo Oriente ha attinto a piene mani nelle possibilità immaginifiche e soprattutto orrorifiche di una normalità ormai consueta benché folle oltre che disumanizzante. L’occhio esterno delle anonime telecamere e gli squallidi corridoi che portano a loculi chiamati “monolocali” introducono infatti anche Door Lock, thriller di discreta riuscita che parrebbe preludere, appunto, a un horror tutto all’insegna dell’angoscia tecnologica. Siamo invece lontanissimi dai turbamenti fantasmatici di un Kiyoshi Kurosawa ed è, forse, proprio questo smarcamento ciò che rende il film del sudcoreano Lee Kwon degno di qualche interesse. Ispirato allo spagnolo Bed Time (2011) di Jaume Balaguerò, in fondo Door Lock pare infatti suggerire che dietro alle suggestioni relative alla smaterializzazione dell’omicida, o dietro a raffinate rappresentazioni della paura psichica, si celano spesso semplicemente le storie di esseri umani che decidono di compiere il male. La scelta del film, presentato al XXI Far East di Udine, è dunque quella di utilizzare tanti stilemi dell’horror orientale, appoggiandoli alla struttura di un thrilller iberico, per riportarli pienamente al giallo. Tenendo ferme le costanti sociologiche e concrete su cui, appunto, sguazza (e ne ha motivo) tanto immaginario di genere.

Tra queste certamente c’è anche la ritrosia quando non il terrore del contatto umano, la paura del dare confidenza agli estranei quanto ai vicini di casa, la solitudine nelle megalopoli e la frammentarietà delle relazioni (e pure la precarietà nel lavoro). La giovane Kyung-min (la bella e popolare attrice coreana Kong Hyo-jin) non è una campionessa di espansività: parla poco, come sportellista bancaria è fin troppo timida, sgattaiola dall’ufficio solo per tornare al suo monolocale dove si prepara una frugale cena e andare a letto facendosi cullare da una discutibile versione elettro-pop delle Gymnopedie di Erik Satie. Solitudine, riunioni motivazionali sul lavoro, intimi silenzi e porte blindate da chiudersi alle spalle: tutto il possibile disagio è in squadernato come da copione. Eppure Kyung-min ha le sue ragioni nel chiamare la polizia perché qualcuno, una sera, ha cercato di penetrare nel suo micro-appartamento: no, non è una percezione distorta, sebbene Door Lock faccia inizialmente di tutto per indurre lo spettatore a pensare che si possa trattare di qualcosa di sovrannaturale o di una psicopatologia. Ma ben presto il film si instrada sul thriller vero e proprio, dove c’è poco di immaginario e molto di concretamente sanguinario. A differenza della polizia, che inizialmente non dà peso alle paure della ragazza, la fida e unica amica Hyo-joo (interpretata da un’altra popolare attrice e cantante, Kim Ye-won) le presta subito ascolto e le due ragazze – tra loro molto sodali – si mettono a indagare, almeno finché le cose non si mettono troppo male. Non mancano poi un detective, un collega forse aspirante fidanzato, un cliente della banca molto arrabbiato, una vicina di casa e il plot è fatto.

Se Door Lock non è di sicuro un film indimenticabile, vale la pena citare l’ottimo inizio, che a lungo lo spettatore non può collocare davvero in una linea spazio-temporale, una piacevole ironia nella tonalità del film, alcuni momenti di suspense ben congegnata, e la gestione intelligente degli spazi, costretti e costrittivi negli interni, oppure angosciosi quando si tratta di esterni e strade, magari popolate da esseri umani ma in fondo capaci di trasmettere soprattutto smarrimento e solitudine. Gli squarci urbani e la durezza del vivere in angusti luoghi (il vero incubo, in fondo, è restare intrappolati in un armadio, magari con un assassino) sono l’elemento più evocativo di un film che compie inevitabilmente il suo percorso verso la risoluzione del mistero. Ma che, compiendolo, accompagna piacevolmente lo spettatore lungo un tragitto in cui sono ben disseminati i tormentoni del genere, l’ironia sugli stereotipi stessi dell’horror orientale, la capacità di esprimere il disagio che può provare una donna sola nel percorrere gli spazi urbani, la sua paura di essere sorvegliata da qualcuno o qualcosa e il terrore di essere invasa dal mondo esterno anche dentro casa. Anche nel proprio letto. Anche mentre si dorme. Se gli spunti per un thriller più psicologico e ambiguamente raffinato ci sono tutti, la scelta di Lee Kwon pare consapevolmente un’altra: quella di giocare con questi elementi per un ritorno alla materialità, al thriller, riconducendo i fattori di dissociazione e alienazione presenti nella quotidianità straniante di Seul a una psicosi squisitamente delittuosa. Per cui si molta fatica a parlare con il prossimo e magari molto poca ad ammazzarlo.

Info
Il trailer di Door Lock.
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