Storia di Ray (o l’asino che vola)

Storia di Ray (o l’asino che vola)

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Parte come il più canonico dei documentari biografici Storia di Ray (o l’asino che vola), primo lungometraggio per Giuseppe Di Renzo, ma ben presto il pedinamento dell’artista tuttofare abruzzese Ray Sugar Sandro si sposta in direzioni sorprendenti, e del tutto fuori dai canoni. Il film si trasforma dunque in un’opera allegorica, ricca e sfaccettata, racconto grottesco di un mondo e dell’illusione della fama, e della gloria.

Ciao Dio

Ray Sugar Sandro è un poliedrico artista abruzzese: pittore, cantante, performer, attore, è celebre nel sottobosco delle sagre di paese, si esibisce nelle pizzerie ed è una vera star per le emittenti locali. Nonostante il successo nel suo piccolo mondo antico Ray Sugar Sandro ha l’ambizione di diventare noto a livello nazionale, e desidera a tutti i costi prendere parte a un talent show televisivo. Quando finalmente i suoi desideri sembrano trasformarsi in realtà e l’uomo è sulla banchina in attesa del treno avviene però qualcosa di inspiegabile… [sinossi]

A volte, prima di perdersi nel magma delle interpretazioni, delle letture e delle analisi, può essere utile partire dall’inizio. Direttamente dal titolo: Storia di Ray (o l’asino che vola) racchiude infatti in sé l’intero senso del lungometraggio di esordio di Giuseppe Di Renzo. Il film è infatti in maniera indubitabile la “storia di Ray”, quel Ray Sugar Sandro che vorrebbe emanciparsi dalle sagre di paese, e dalle esibizioni canore in pizzeria, per tentare la scalata della società dello spettacolo e imporsi finalmente a livello nazionale. Ma Storia di Ray è anche il racconto dell’asino che vola, sia metaforicamente, nell’accezione popolare che acquisisce il modo di dire, sia praticamente, visto che un asino alla fine del film appare, e forse potrebbe persino volare. È in qualche modo, nel migliore dei modi, un film impossibile quello che porta a termine Di Renzo, impossibile come Il giorno di Sacramento, mediometraggio sulle cui immagini si apre Storia di Ray,che vede in scena tra gli attori il sempiterno Ray Sugar e che venne diretto da Davide Pompeo, giovane regista di Lanciano morto prematuramente a trentuno anni. Vederne le immagini lì in apertura, al di là dell’apparizione iconica di Ray Sugar, sta a suggellare un patto silente, quello con il territorio abruzzese ma anche con un mondo di provincia tenuto a debita distanza dall’epicentro del potere eppure vivo, vitale, persino esasperante nella sua dichiarazione di esistenza. Quella dichiarazione che il protagonista del documentario di Di Renzo urla in ogni suo intervento, e ancor più nelle ossessive telefonate con cui cerca di mettersi in contatto con la responsabile del casting di Strafactor, il talent show di Sky che rappresenta il sogno di Ray Sugar, il suo personale Bengodi artistico.

Sì, partire dall’inizio a volte può essere il modo migliore, se non l’unico, per comprendere appieno il senso di determinate operazioni cinematografiche. Per quanto sia passato sotto il naso della critica senza che questa abbia aguzzato l’olfatto, e sia stato ignominiosamente ignorato dalla quasi totalità del comparto festivaliero, Storia di Ray è uno degli esordi più interessanti, sorprendenti e curiosi che il cinema italiano abbia prodotto nel corso degli ultimi anni, e insieme a Le Eumenidi di Gipo Fasano e Angelo bianco di Vincenzo Basso rappresenta l’immagine più nitida, caparbia e libera di quel sottobosco spesso considerato informe che risponde solitamente la nome di “indipendenza”. Il merito va ovviamente in primis a Giuseppe Di Renzo, che ha seguito per quattro anni Ray Sugar Sandro, eroe popolare in terra abruzzese. Un pedinamento che però viene progressivamente smentito, uscendo dai binari del “corretto” racconto biografico per perdersi in lande desolate e sempre più spesso disabitate come il grottesco, il surreale, l’allegorico. Da principio sembra tutto muoversi nella direzione canonica, con la videocamera che registra le diverse performance del protagonista, uomo dai mille talenti e dalle ambizioni ancora più sfrenate: nelle feste paesane, in quei palchi un po’ improvvisati che riempiono piazzette solitamente adibite allo struscio cittadino, è accolto con tutti i crismi, come si conviene a una celebrità fatta e finita. Ray Sugar d’altro canto affronta con soverchia professionalità gli impegni quotidiani, esercitandosi in ogni modo, agendo l’arte come un’estensione della propria esuberante personalità. Il suo obiettivo è quello di creare una connessione, un momento di verità assoluta e “pura” (nell’affascinante sudiciume di un mondo dell’avanspettacolo che sembra uscito dalle rêverie felliniane) con il pubblico che lo ascolta e lo venera. Ray Sugar si agita sul palco come fosse il più leggiadro degli animali, ma non si rende in realtà conto di essere una crisalide, una pupa chiusa in un bozzolo sericeo. Il suo è un tentativo di metamorfosi che nella putrescente realtà non può essere portato a termine con compiutezza.

Il lavoro puramente documentario del regista straborda di materiali, e tiene avvinto lo spettatore, stordito da quelle luci così irreali, da quei videoclip impossibili e orridi, dalla più stantia retorica che sembra però sgorgare in modo genuino, mai artefatto, dalla mente di un uomo che è oramai maschera perpetua, impossibilitato a scindere l’uomo in scena da quello nella vita quotidiana. Il reale si fa già naturalmente grottesco, come evidenzia la strepitosa sequenza che vede Ray Sugar cercare di convincere il produttore musicale del suo disco della bontà delle sue idee, legate alla canzone per lui più importante (dal titolo roboante Ciao Dio), per ricevere però in cambio solo una colorita reprimenda, rimproverato di non saper scandire le parole che deve pronunciare e di non essere stato neanche in grado di scrivere un testo che seguisse uno straccio di metrica. Non c’è però mai distacco tra lo sguardo della camera e la vita di Ray Sugar, né si avverte in alcuna occasione il sentore fetido della presa in giro, dello sberleffo. Se Di Renzo si ostina a riprendere le performance di questo bizzarro personaggio destinato a una mitologia provinciale, è perché in lui vive un intero mondo, che è però anche quello in cui sguazza l’intera nazione. Un mondo convinto di aver qualcosa da comunicare, e anche di essere in grado di farlo. Non è casuale che la ricerca disperata di un provino per Strafactor colpisca alla fine il bersaglio: Ray Sugar è in realtà perfetto per la televisione nazionale, che dalla sua può solo permettersi budget più consistenti, e dunque materia prima di maggior qualità. In modo quasi automatico Storia di Ray diventa dunque anche una riflessione sul cinema come macchinario industriale, e sulla distinzione del tutto arbitraria tra chi può far parte del sistema e quelli a cui invece il portone è sempre chiuso davanti alla faccia.

È solo quando la televisione nazionale finalmente decide di concedergli un’opportunità che Ray può portare a termine la sua metamorfosi, trasformandosi però nel protagonista Lucio o l’asino, il testo in greco del I secolo dopo Cristo attribuito da alcuni a Luciano di Samosata. Dopotutto un personaggio che non ha mai mostrato segni di psicologia può benissimo tramutarsi in un ciuchino – elemento cardine del fiabesco mediterraneo, dal già citato Lucio o l’asino ad Apuleio fino a giungere al collodiano Pinocchio. A scartare senso ed estetica è però anche la messa in scena, che abbandona le pratiche del biopic documentario per lanciarsi in una fiaba clownistica, grottesca e straniante. Un dirazzare improvviso, che arriva quasi dopo un’ora di film e stravolge la prassi, la logica, l’abitudine dell’occhio impigrito dello spettatore medio. Di Renzo prende la sua creatura e la plasma, trasformandola in altro: ha il coraggio di abbandonare il suo protagonista per elevarlo a un livello ai più impensabile, quello di immagine stessa del mondo contemporaneo. La sua è infatti solo la metamorfosi ultima, per un uomo che vive nella sua maschera e della sua maschera. Senza scomodare sociologismi banali il regista riesce a osare l’inosabile, tracimando in territori altri, liberandosi effettivamente dai legacci, dai vincoli di un cinema precostituito e dunque predigerito. Questo clown di periferia è ancora sulla banchina su cui dovrà passare il suo treno? Può effettivamente sognare di volare al di sopra delle pastoie della mediocrità imperante? Di Renzo firma un biopic che esclude in modo scientifico e volontario qualsiasi elemento puramente biografico per allargare lo sguardo, giocare con il paradosso, puntare l’occhio sul trash senza per questo doverne accettare tutte le derive ma costringendolo a una dialettica, spingendolo a parlare con il proprio opposto. È dopotutto il goffo collaboratore di Ray a fungere da trait d’union tra la parte documentaria e quella apertamente d’invenzione, il bipolarismo di cui vive il film: è lui a chiedere a Siri, la voce che assiste i clienti Apple, di trovare “Ray Sugar Sandro”. Ma quelle parole non dicono nulla alla memoria elettronica, che invece dirotta l’uomo, e dunque lo spettatore, su Lucio o l’asino. Non esiste fiaba nel contemporaneo, si è perso il gusto dell’allegoria, della metafora, del superamento dell’ovvio. Anche per questo profuma d’antico, e d’altri tempi, Storia di Ray, coraggiosamente portato a termine anche grazie al provvido intervento della giovanissima e dinamica Daitona, casa di produzione romana. “Preferisco essere e non piacere, piuttosto che piacere e non essere”, sentenzia in uno dei suoi molti momenti autocelebrativi Ray Sugar Sandro. Un insegnamento che molto cinema italiano ha dimenticato per strada, perdendo allo stesso tempo la capacità di trasformarsi, di diventare/ritornare finalmente animale.

Info
Storia di Ray, trailer.

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