Comizi d’amore
di Pier Paolo Pasolini
Film-inchiesta sulla questione sessuale realizzato nei pieni anni Sessanta del boom economico italiano, Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini è nutrito di rispetto per l’umano e al contempo ben determinato a scavare nelle ipocrisie e nelle idee retrive di un Paese colto in uno dei suoi momenti apparentemente più floridi. Dalla campagna calabrese a Giuseppe Ungaretti, tutti si fanno testimoni dell’opprimente rapporto tra corpo ed etica, tra corpo e società.
Comunque signor Pasolini, io mi auguro che quando mi sposo vada tutto bene
Intenzionato a condurre un’inchiesta sul rapporto tra gli italiani e la sessualità, Pier Paolo Pasolini intervista le persone più disparate, percorrendo il Paese da cima a fondo tra balere, spiagge estive e piccole comunità isolate in contesti agrari. Di tanto in tanto l’autore si sofferma a discutere dei temi sollevati e dei risultati conseguiti nella sua inchiesta con alcuni amici e conoscenti, tra i quali Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Cesare Musatti, Oriana Fallaci, Camilla Cederna, facendo pure una sosta al Lido di Venezia durante un’edizione della Mostra del Cinema… [sinossi]
«Al vostro amore si aggiunga la coscienza del vostro amore». È di nuovo sul crinale fra ingenuità e coscienza, fra spontaneità e consapevolezza, che si pone il cinema di Pier Paolo Pasolini, anche con Comizi d’amore (1964), documentario-inchiesta sul rapporto tra italiani coevi e sessualità le cui riprese si svolsero nel 1963, parzialmente in contemporanea ai sopralluoghi in giro per l’Italia per Il Vangelo secondo Matteo (1964). Spontaneità, si badi bene, che spesso confonde i propri confini con forme già ben delineate di culturalizzazione, capace di trasformare in ignoranza una massa di tabù, reticenze e false convinzioni dovuti a un bagaglio di schiaccianti sovrastrutture. Cosicché, quel che appare ovvio e spontaneo sui volti sorridenti degli italiani anni Sessanta è in realtà non frutto di un’epoca più ingenua, ma semplicemente inzuppata in un’altra (per molti versi biasimevole) cultura. Pasolini pone le sue domande con estrema naturalezza, svariando dalla delicatezza per i giovanissimi alla robusta chiarezza di toni con gli adulti. Sono domande semplici, elementari, che però affrontano di petto molto del rimosso sociale di quegli anni. Come nascono i bambini, qual è il rapporto degli intervistati con la sessualità e con la verbalizzazione della sessualità, che cosa pensano della pornografia, dell’omosessualità, del divorzio, della prostituzione, della legge Merlin… Pasolini va a toccare tutta una corposa serie di temi scottanti per l’Italia del suo tempo, contrapponendo spesso Nord, Centro e Sud, e alternando risposte prevedibili a varie sorprese. Pasolini conduce le sue interviste per strada, nei quartieri, nelle balere, molto spesso in luoghi di ritrovo estivi al mare, commentati da coeve canzonette popolari da juke-box. Un posto di riguardo, com’è immaginabile alla luce delle predilezioni pasoliniane, è riservato anche all’Italia marginale, non solo contadina ma spesso semplicemente non inurbata, sovente individuabile nel dimenticato Sud Italia. In qualche modo Pasolini sembra voler indagare le ragioni delle convinzioni più coriacee del modus pensandi italiano sui ruoli sociali di uomo e donna, su fenomeni come il gallismo, la gelosia, il delitto d’onore, sul silenzio e l’isolamento cui sono condannate le donne meridionali del tempo. Perché?, chiede insistentemente Pasolini quando trova davanti a sé la rocciosa incontrovertibilità del dato sbandierato con certezza dall’intervistato di turno. Perché è così, è la frequente risposta. L’ordine sociale emerge come un qualcosa di naturale, ancestrale e ineluttabile, non dovuto a deliberate consuetudini sociali bensì a una sorta di sistemazione divina dell’esistenza.
Più volte sollecitata dalle sagaci domande di Pasolini, mai troppo violente e invadenti ma anche ben intenzionate ad arrivare dove vogliono, a suscitare cioè nell’intervistato la consapevolezza del comportamento socialmente condizionato, è d’altro canto la sovrastruttura cattolica il vero grande protagonista di Comizi d’amore, rintracciabile sotto svariate forme in buona parte delle risposte raccolte. Che sia il continuo richiamo all’ordine garantito dall’organizzazione familiare, i doveri del buon padre o il reiterato rifiuto del divorzio, il film di Pasolini finisce per raccontare un’Italia che spesso si nasconde dietro un’opportunistica ineluttabilità del reale per non fare il minimo sforzo verso il progresso. D’altra parte, il progresso, se inteso nelle forme di brutale tecnocrazia e omologazione quale si è venuto delineandosi nel secondo dopoguerra, non è certo un concetto per il quale Pasolini si batta incondizionatamente. Sempre lacerato tra natura e coscienza, Comizi d’amore propone da un lato il recupero di un’Italia ancestrale (le parentesi contadine in Emilia-Romagna), incline a comprendere più immediatamente la vita perché più congeniale al suo fluire e quindi capace di stare ben lontana dalle sovrastrutture borghesi, e dall’altro una sfilza di piccoli neoborghesi in cui la coscienza è soltanto cattiva, nutrita di una cultura fondata sulle differenze, sulla sopraffazione, sul prestigio inteso come premio a scapito di altri – basti pensare al gallo milanese convinto di essere il più uomo tra uomini. Le figure che emergono da un’intervista all’altra non sono mai giudicate, e con tratti fortemente inquietanti finiscono per essere amabili anche quando dicono ingenue atrocità – chapeau a Pasolini per il sangue freddo dimostrato ogniqualvolta si sia sentito rispondere, in tema di omosessualità, che è una roba schifosa di cui è meglio non parlare. I protagonisti neoborghesi mostrano spesso sovrastrutture culturali compromissorie in cui un’equivocata ingenuità popolare è in realtà nutrita di solidissimi steccati culturali fitti di pregiudizio e di grettezza. L’Italia qui registrata, colta nel pieno del boom anni Sessanta, è in realtà soltanto benestante, alla scoperta per la prima volta nella sua storia di un grande o piccolo potere d’acquisto quasi alla portata di tutti. Tutti quanti possono permettersi di andare a ballare o di passare una giornata in spiaggia. Pochissimi, però, intravedono in questa età dell’oro anche un’opportunità per rinnovare profondamente il paese. È un benessere appoggiato al piccolo e indistruttibile interesse personale, dove il decoro sociale ricopre un ruolo fondamentale e assolutamente funzionale al mantenimento del medesimo benessere. A fianco di sesso e cultura, infatti, l’economia è il terzo fondamentale elemento continuamente evocato dal Pasolini di Comizi d’amore. Quanto sono importanti i processi produttivi per determinare psicologie e comportamenti fin nei rapporti intimi e nel sesso? Quanto il benessere materiale contribuisce a costruire false certezze, ipocrisie, pregiudizi, e a riconfermare gerarchie sociali tutto fuorché innovative? La modernità italiana, pare voglia dire Pasolini, è tutt’altro che un effettivo rinnovamento. È il paradosso di una società che cresce nel benessere per rinsaldare vecchi abiti mentali. E il rispetto del sacro è a sua volta una foglia di fico. Il Sacro istituzionalizzato è banale e retrivo. «Cristo non si è mai scandalizzato. Si scandalizzavano i farisei», dice Moravia in uno dei brani più ficcanti. Il moralismo e il conformismo non hanno niente a che fare con il Sacro. D’altra parte, l’Italia del benessere è ancora solo una metà. Il rovescio della medaglia, ma dagli esiti pressoché identici, è l’Italia della miseria che ancora si arrocca su schemi antichi poiché unica ricchezza di cui dispone – esempio più pertinente, l’onore della donna nel meridione. In linea più generale, vige un ottimismo della volontà che davanti a quesiti troppo problematici sceglie la via di un’ingenuità fintamente recuperata (poiché impossibile da recuperare nella sua essenza effettiva). Basti pensare alla ragazza intervistata in una balera milanese riguardo all’eventuale omosessualità dei propri figli futuri. La ragazza si augura che si sposi e che vada tutto bene. L’orizzonte di un benessere materiale finalmente acquisito fa ben sperare per il futuro, fugge sdegnosamente da qualsiasi vera problematicità. «Signor Pasolini, io mi auguro che quando mi sposo vada tutto bene». Non è ingenuità, è scelta consapevole di ingenuità.
A intervallare i capitoletti intorno ai quali l’inchiesta di Pasolini è articolata, si aprono pagine di riflessione dove l’autore invita amici e intellettuali a interrogarsi sulle tematiche proposte alla gente per strada e a riflettere al contempo sui metodi adottati e i risultati conseguiti dall’inchiesta in corso. Per Comizi d’amore Moravia parla di cinéma-vérité alla coeva maniera francese, e nelle sezioni dedicate alle riflessioni a latere sull’inchiesta s’identifica probabilmente la maggiore giustificazione di tale richiamo altrimenti un po’ arbitrario. Tipica del cinéma-vérité è infatti l’autoriflessione, l’interrogazione su se stessi, la messa in discussione del dispositivo cinematografico, continuamente reso oggetto di critica anche nel medesimo farsi del film. È ovvio che Comizi d’amore sia frutto di una selezione e di un montaggio, che Pasolini abbia deciso con il suo fidato montatore Nino Baragli un taglio e un discorso da condurre operando scelte tra le numerose interviste raccolte. Tuttavia, Pasolini si chiede con Moravia dove stia la vera Italia, se si trovi cioè nelle persone che hanno accettato un confronto, sia pure mediato dal pudore e dai meccanismi di autodifesa, o nelle tante persone che hanno rifiutato l’intervista. A loro modo, i recalcitranti costituiscono un non-filmico fondamentale, poiché le motivazioni individuali ed eterogenee del rifiuto possono anche essere sintetizzate nella conservazione di quel decoro che è tassello fondamentale per la difesa del proprio status quo sociale. Insieme a Moravia, portano la loro testimonianza Cesare Musatti, Giuseppe Ungaretti (uno dei momenti più toccanti), Oriana Fallaci, Camilla Cederna, Antonella Lualdi, Adele Cambria… L’approccio di Comizi d’amore è ecumenico, tende a riportare su uno stesso piano d’analisi strati sociali ben diversificati per formazione e collocazione individuale e professionale. È una forma di rispetto per l’umano contagiosamente entusiasmante. L’opinione di Antonella Lualdi vale quanto quella di una contadina emiliana, e (soprattutto) viceversa. Al termine di un rutilante caleidoscopio assai più simile a un pamphlet che al cinéma-vérité tout court, resta comunque forte e percepibile la naturale predisposizione di Pasolini per la poesia. In qualche modo, nelle sue convenzioni da inchiesta filmica Comizi d’amore può essere globalmente considerato cinema di prosa, impastato com’è con il contingente italiano sia pure con costanti riflessi ontologici e universali – al di là delle pressanti questioni sociali evocate, restano impressi alcuni accenti fissati sui volti, sulle titubanze, sulle reticenze, uno per tutti la ragazza siciliana che, abbassando la testa, finisce per mostrare comprensione per gli uomini in cerca di prostitute in un contesto sociale che separa nettamente il maschile e il femminile fino al matrimonio. Eppure, l’esordio del film è un pieno sconfinamento nella poesia, e nell’età della poesia. Raccogliendo le idee di alcuni bambini meridionali riguardo alla nascita, Pasolini dà voce a quell’età, sociale ma in primo luogo individuale, che è sede di pura fantasia poetica. È chiaro che quei bambini sono già pregni di cultura (la cicogna non se la sono di certo immaginata per conto loro, bensì è frutto di consolidate fiabe popolari puntualmente tramandate ai più piccoli), ma comunque rielaborata a uno stadio primitivo in cui è ancora forte l’impronta della naturale poesia infantile. Ne è testimone, più di tutti, il bambino che fa riferimento a un misterioso «fiore», tenuto nascosto dalla «lavatrice» (leggi levatrice) nella propria borsa. È quel fiore, secondo il bambino, a dare adito alla nascita. Per cui, il richiamo finale dalla viva voce di Pasolini a un amore che sia foriero anche di coscienza dell’amore, è un atto dovuto alla civiltà, ancora così lontana nell’Italia del tempo, ancora terreno da conquistare per un orizzonte che prevede continue prevaricazioni e violenze. Tuttavia, se l’atto di coscienza è anche atto di progresso, resta comunque l’imperituro richiamo a un’età della poesia che possa costituirsi come fonte di eterno stupore a qualsiasi altezza anagrafica. Nelle commoventi parole di Ungaretti, l’atto di civiltà è di per sé atto di violenza nei confronti della Natura. L’uomo è dunque di per sé contronatura. E il nucleo più autentico e prezioso resta quello del linguaggio fantastico, preculturale, pre-razionale. La cicogna è già traccia di una cultura. «Lo fiore» della «lavatrice» viene chissà da dove. Probabilmente da un impulso spontaneo e totalmente irrazionale, dove il linguaggio si sposa all’intuizione e all’istinto. «Lo fiore», in ultima analisi, è la finalità decisiva dell’inchiesta condotta da Pasolini. Rintracciarne i riverberi, sotto massicce stratificazioni antropologiche e socio-culturali.
- Genere: documentario
- Titolo originale: Comizi d'amore
- Paese/Anno: Italia | 1964
- Regia: Pier Paolo Pasolini
- Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini
- Fotografia: Mario Bernardo, Tonino Delli Colli
- Montaggio: Nino Baragli
- Interpreti: Adele Cambria, Alberto Moravia, Antonella Lualdi, Camilla Cederna, Cesare Musatti, Giacomo Bulgarelli, Giuseppe Ungaretti, Graziella Chiarcossi, Graziella Granata, Lello Bersani, Oriana Fallaci, Peppino Di Capri, Pier Paolo Pasolini
- Produzione: Arco Film
- Durata: 89'