Edipo re

Primo lungometraggio a colori diretto da Pier Paolo Pasolini, Edipo re è il film più scopertamente autobiografico del regista bolognese. Un lavoro di chiarezza esemplare, che parte da se stesso e dai propri natali per arrivare alla tragedia, e al racconto dell’uomo pre-psicologizzato: la vicenda umana e politica di Pasolini viene così consegnata a un sogno spogliato da sovrastrutture borghesi. Con Franco Citti nei panni di Edipo, Silvana Mangano eburnea Giocasta, e Julian Beck e Carmelo Bene a testimoniare la riflessione sul teatro, e l’utopia di una rifondazione scenica.

Il sogno di una cosa

Un bambino nasce e la madre lo accudisce con amore mentre il padre, un militare, si sente minacciato dal suo arrivo e desidera fargli del male: siamo nell’Italia degli anni ’20 ma contemporaneamente siamo nel mito e nel passato, sul monte Citerone, dove il piccolo Edipo viene portato a morire da un servo del padre Laio. Un pastore lo salva; il destino di Edipo non può che compiersi. [sinossi]

Nella primavera del 1966, durante una fase di malattia per l’aggravarsi della sua ulcera, Pasolini rilegge Platone e ripensa il teatro greco: di questo periodo è infatti la prima stesura delle sei opere teatrali pasoliniane (Calderón, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia da stile, alcune molto rimaneggiate successivamente), cui pochi mesi dopo seguirà la sceneggiatura di Edipo re (presentato nel 1967 alla Mostra di Venezia) liberamente tratto da Sofocle e il primo abbozzo di Teorema che diventerà film nel 1968. Il teatro e la sua vocazione politica sono in questi anni importanti anche nella ridefinizione del linguaggio cinematografico pasoliniano, in direzione di una maggior astrazione: forse, del resto, una delle espressioni centrali di questa ridefinizione si trova nel Manifesto per un nuovo teatro che vedrà la luce nel numero di gennaio-marzo di Nuovi argomenti nel fatidico 1968. Nel programmaticamente incendiario Manifesto si proclama la necessità di un teatro che oltrepassi sia la rappresentazione borghese (il “teatro della Chiacchiera”) che quella borghesemente anti-borghese (il “teatro del Gesto o dell’Urlo”), ravvisando nel Teatro di Parola il superamento quasi hegeliano di due tesi/antitesi nate dalla stessa matrice. Il Teatro di Parola è destinato per Pasolini ai “gruppi avanzati della borghesia”, ovvero all’avanguardia intellettuale il cui interesse culturale sia reale; questo teatro “non nasconde di rifarsi esplicitamente al teatro della democrazia ateniese, saltando completamente l’intera tradizione del recente teatro della borghesia” e ricerca il proprio spazio teatrale “non nell’ambiente ma nella testa. Tecnicamente tale spazio teatrale sarà frontale” poiché la frontalità è atto politico, garanzia di parità democratica. Grazie a una di quelle contorsioni intellettuali che rendono Pasolini dialettico in ogni suo gesto per quanto apparentemente assertivo possa essere, il regista rifiuta anche il “teatro del Gesto o dell’Urlo” le cui espressioni più avanzate lo avevano entusiasmato proprio negli anni precedenti, come l’esperienza del Living Theatre che Pasolini aveva potuto vedere per la prima volta nel marzo del 1965 all’Eliseo di Roma assieme a Elsa Morante o l’amatissimo poetare spesso performativo di Allen Ginsberg che aveva conosciuto nel 1966 nell’esaltante viaggio autunnale a New York che Pasolini fece per accompagnare Oltreoceano Uccellacci e uccellini (1966). O come il “caso” italiano di Carmelo Bene, il cui teatro viene elogiato anche nel Manifesto essendo CB fautore di un sovvertimento del teatro prodotto dall’anticultura. Non va dimenticato che del 1967 è poi il saggio Osservazioni sul piano-sequenza in cui il regista riflette sul ruolo del montaggio che interrompe la soggettiva infinita e sul fatto che l’interruzione opera sul materiale filmico ciò che la morte opera sulla vita ovvero rende il tempo inevitabilmente passato. Nella volontà del superamento della dicotomia borghese del teatro, che partorisce al suo interno sia la propria espressione convenzionale che la propria espressione anticonvenzionale, nella considerazione che il montaggio rende l’esserci “linguisticamente descrivibile” e attingendo alle forme rappresentative della polis, Pasolini realizza il suo film più scopertamente autobiografico, quell’Edipo re in cui il regista vorrà proprio Carmelo Bene e Julian Beck (nei titoli di testa si legge “per cortese concessione del Living Theatre”) rispettivamente nei ruoli di Creonte e Tiresia. In questa torsione concettuale, alla ricerca di una essenzialità che possa mostrare l’atto del tempo e connettere la vita del presente con un passato assoluto, Pasolini è pronto ad affrontare la tragedia di Sofocle addossandole innanzitutto un senso auto-analitico, mettendo a nudo se stesso prima di qualsiasi altra implicazione sul destino umano e la responsabilità del conoscere di cui l’esegesi della celebre tragedia si fa da millenni portatrice. Pasolini si identifica in Edipo, è Edipo nella sua versione freudiana, e la parabola del futuro re di Tebe è parabola del poeta sia nel sentimento d’amore per la madre Susanna che nella condanna al vagare e al suonare ossia al poetare per via di una natura di cui è colpevole e innocente a un tempo. Il mito greco, riletto alla luce della psicanalisi contemporanea, diventa un sincretismo iperuranico e ieratico in cui Pasolini si specchia per allontanare il sé presente in uno spazio temporale che diventa cronistoria del racconto di Sofocle, intrecciando tragedia greca e maschere africane rituali, gli esponenti del teatro d’avanguardia e la popolazione berbera, lo spontaneo darsi di Ninetto e Giandomenico Davoli e la bianca pelle nobiliare di Silvana Mangano, l’Italia e l’Africa in un viaggio in cui non solo si smarriscono le coordinate dell’attualità ma la ferita interiore del poeta sembra disperdersi nell’incontro di mondi archetipici, dissolversi in un altrove radicandosi nell’universale del mito. Come nell’utopico Teatro di Parola, in Edipo re la frontalità non ha più a che fare con l’estetica rinascimentale ma con l’uomo pre-psicologizzato, con il preumanesimo dell’antico e con la ricerca di nessi simbolici differiti in un pensarsi che è, sempre, il primo incipit del pensiero. Così Pasolini, partendo da se stesso e dai propri natali per allontanarsene “staccando” sull’antichità, consegna la sua vicenda umana e politica a un sogno spogliato da sovrastrutture borghesi, coinvolgendo in questa operazione teatranti amati dal poeta come Beck e Bene, cui Pasolini probabilmente consegnava ugualmente l’utopia di una rifondazione scenica.

Primo lungometraggio a colori del regista, che per l’occasione “cambia” direttore della fotografia (Giuseppe Ruzzolini prende qui il posto del fedelissimo Tonino Delli Colli), Edipo re è un lavoro di chiarezza esemplare, facilmente suddivisibile in tre parti diversamente caratterizzate: l’inizio e la fine contemporanei che fungono da cornice esistenzial/biografica dell’opera; la lunga odissea che conduce Edipo a Tebe e che non appartiene alla tragedia sofoclea; l’agnizione dell’identità di Edipo narrata nel testo di Edipo re. Il film esordisce e termina rispettivamente negli anni ’20 e negli anni ’60 e, rispettivamente, in un paesino di campagna del Nord e a Bologna, i luoghi dell’esistenza intima pasoliniana. Un bambino nasce nella prima scena e quel bambino è il regista: siamo in Italia (anche se una pietra miliare indica “Tebe”) e nei primi dieci minuti vengono mostrate le coordinate emotive della famiglia Pasolini. All’amore immersivo con la madre che lo allatta (Silvana Mangano, che sarà anche Giocasta) seguito da uno sguardo sulla natura naturata estatico e contemplativo che pare appartenere all’inconsapevole bambino, si contrappone il volto severo del padre (un militare nel film come nella vita), autorità gelosa del figlio che gli sottrae le attenzioni della donna e di cui pensa “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho”. La compenetrazione tra bambino e madre, circondata dal silenzio che precede l’individuazione, è messa a repentaglio dalla competizione maschile che, dopo un amplesso con la moglie, arriva a prendere per le caviglie il piccolo che dorme nel letto: l’ambientazione moderna cede il passo allo slittamento temporale e ci troviamo finalmente nel luogo della tragedia, quella Grecia antica ripensata in Marocco, a ridosso del Sahara nella zona di Ouarzazate e Zagora, dove un neonato viene portato a morire su un ipotetico monte Citerone. Una natura aspra, fatta di serpenti, rocce e alture ci introduce in una zona mentale, prima ancora che rappresentativa, in cui Pasolini inscena la storia di Edipo con uno svolgimento lineare del tutto assente nel testo di Sofocle che invece inizia con Edipo adulto e già re di Tebe intento a fronteggiare la peste: Pasolini dipana “la trama”, privo di intenti filologici, e la “ripetizione” del testo originario inizia dopo un’ora, ossia quando si susseguono i dialoghi con Creonte, Tiresia e infine il pastore che ha salvato Edipo da neonato. Prima di questa parte che ricalca, appunto, gli episodi della tragedia, Pasolini si concentra su un acceso primitivismo fatto di azioni scarnificate in un paesaggio circondato da un sole spesso abbagliante, di primi piani alternati a campi lunghi, di gesti puri come il pianto di Alida Valli (che interpreta Merope, regina di Corinto e la “madre adottiva” di Edipo) quando il figlio parte alla volta di Delfi da cui ripartirà alla (casuale e fatale) volta di Tebe trovando sul suo percorso danze tribali e volti di giovani berberi in un onirismo ipnotico interrotto solo da atti ferali e puntuali come l’uccisione di Laio e della sua scorta. In un luogo arcaico, privo delle strutture borghesi cui cui il regista è in polemica, si delinea un’idea di cinema costituito da segni “irrazionalistici, onirici, elementari e barbari” (Empirismo eretico) in cui si stagliano il volto di Franco Citti che interpreta Edipo, la terra e la polvere avvolti in una musica di percussioni e strumenti a fiato – che Pasolini scelse e curò con grande attenzione, destinando al suono nella tragedia un’importanza che potremmo dire nietzschiana – nello scandaglio antropologico di luoghi in cui la verità abita ancora. A interrompere il flusso della (freudiana) condensazione è, fin dalla prima apparizione, Tiresia (Julian Beck) che suona il flauto alle pendici di Tebe e che Edipo, prima ancora del suo ingresso in città, guarda con ammirazione: “Come vorrei essere te” pensa, perché mentre la popolazione di Tebe è terrorizzata dalla presenza della Sfinge il profeta cieco suona. Lo sguardo d’invidia e innamoramento di Citti verso Beck agogna l’arte: Edipo, secondo Pasolini, vorrebbe qui essere Tiresia il quale, in seguito, profetizzerà che, a causa della sua maledizione, Edipo sarà proprio condannato a vagare per il mondo a suonare. La tragedia raccontata da Sofocle si anima poco dopo, talvolta tradotta letteralmente, nei confronti accesi tra Edipo e coloro che, lentamente, smaschereranno la sua colpa: i personaggi si fronteggiano in campi/controcampi a 180 gradi, con frontale violenza crescente e crescente desiderio di sapere da parte di Edipo che, alla fine, non si sottrarrà alla verità portatrice di disperazione. Questi dialoghi non possono più lasciare spazio a nessun dubbio: nel tentativo di fuggire alla profezia dell’Oracolo di Delfi, Edipo si è recato proprio nel luogo della sua nascita, nel tragitto uccidendo il padre e, arrivato a Tebe, congiungendosi con la Regina vedova, sua madre. In questa ultima parte, prima della chiusura, vediamo il film incontrarsi con il testo – in un’opera precedentemente quasi priva di dialoghi – con una messa in scena vigorosamente parlata in cui Edipo/Citti transita dalla negazione al desiderio di riconoscersi, colmo di furore. Dopo il suicidio di Giocasta e l’accecamento di Edipo – e l’importante ostensione del Re accecato di fronte alla città – torniamo nel contemporaneo per un finale significativo cui il regista destina un senso a suo dire marxiano. Se il flauto di Tiresia e il poetare sono sublimazioni, in una delle ultime scene ritroviamo Citti in Piazza Maggiore a Bologna a suonare il flauto per la borghesia indifferente: egli ne sarà presto disgustato. L’invidia per Tiresia, nel moderno è un sentimento immotivato poiché il poeta non può essere integrato né nel tessuto sociale né in quello culturale della borghesia. Accompagnato da Angelo (Ninetto Davoli), il cieco cantore si sposterà allora in una zona industriale dove ragazzini giocano a calcio e operai escono dal lavoro: anche qui, di fronte al proletariato e agli innocenti, però, il musico non pare trovar pace. La troverà soltanto tornando nel prato in cui la madre lo allattava, tra gli alberi inquadrati nell’incipit (che allora sembravano essere visti da un’improbabile soggettiva del bambino così come nel finale sembrano essere rimirati dall’impossibile sguardo di un cieco, in due esempi di soggettiva libera indiretta), perché “La vita finisce dove comincia” in un’immersione misterica, legata al materno e alla natura, che l’uomo può assumere ma non comprendere fino in fondo, dopo una lunga transizione in un sogno.

“Avevo due obiettivi nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobiografia assolutamente metaforica quindi mitizzata, il secondo, affrontare tanto il problema della psicanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il mito sulla psicanalisi, ho riproiettato la psicanalisi sul mito”, scrive Pasolini su Edipo re. E ancora: “Il risentimento del padre nei confronti del figlio è qualcosa che ho avvertito più distintamente della relazione tra madre e figlio, che non è un rapporto storico ma puramente interiore, privato, fuori della storia, anzi metastorico, quindi ideologicamente improduttivo. Mentre ciò che determina la storia è il rapporto di amore e odio tra padre e figlio”. Il rapporto tra biografia e mito è, come detto, evidente fin da principio ossia dalla messa in scena dei luoghi pasoliniani dell’infanzia e poi nello svolgimento fedelmente infedele della tragedia: la decostruzione dell’identità adulta, cui segue un procedimento investigativo anche per la psicanalisi freudiana, è qui sostituita dalla piena consapevolezza del poeta che può narrare il legame con la madre e l’originaria colpevolezza del padre che vuole uccidere il bambino solo per lo spossessamento generazionale che l’infante incarna e per quello sentimentale che comporta. È dunque evidente che, nell’approcciarsi a Edipo, Pasolini racconti sì il proprio complesso ma anche il “complesso di Laio” ossia il desiderio di divorare i propri figli che (come accadrà anche nell’opera teatrale Affabulazione e in Porcile) si lega al mito di Crono. Il contrasto tra generazioni a ridosso del ’68 è tema politico oltre che privato: se è centrale il legame che ha unito Pasolini all’adorata Susanna, è altresì interessante il fatto che nel 1967 il regista ribalti la prospettiva edipica nella violenza dei padri sui figli e nell’ineluttabile conflitto che da questa deriva, determinando il tragico incedere della Storia che si avviluppa tra la minaccia di morte paterna e la distruzione reattiva del principio di autorità. Quanto alla sublimazione artistica derivata dalla colpa circa la propria natura desiderante, essa non ha più un destinatario nella borghesia che se ne scandalizza ma neppure nel proletariato che non può che esserne indifferente: l’intimo mistero del poeta, del suo essere creatura al di là di se stesso, è destinato a chiudersi nel riannodare l’intreccio dell’infanzia quasi pascolianamente e solo le frange avanzate della borghesia intellettuale (quelle cui si rivolge il Teatro di Parola) potranno cogliere in questo un atto politico. L’uomo deve “gettare il proprio corpo nella lotta” – come recita uno spiritual che Pasolini amò nel suo viaggio americano – sperando che, nello spazio mentale della scena, un’avanguardia di realmente interessati comprenda la messa a nudo cui l’individuo è chiamato per poter divenire attore collettivo. La disamina interiore, cui Pasolini non si è mai sottratto e che ha affrontato con cristallina autocoscienza fin dalla giovinezza, è l’ineludibile passo per l’azione politica, passo senza il quale l’artista non può avere consapevolezza del proprio interprete nella comunità né dei compagni di strada in grado di risuonare assieme a lui e in grado come lui di gettare il proprio corpo nell’agone storico. Lo spostamento nel passato mitico della soggettiva di un neonato è del resto il massimo che la rappresentazione filmica può tollerare: tornare al suono inarticolato, alla natura, al grembo, alla frontalità della figura, al deserto – in cui poi vagherà non a caso anche il pater familias di Teorema affondare il coltello nella propria piaga per ridisegnare le coordinate di un conflitto che non è mai aprioristico (ma frutto del riconoscimento del rimosso, dell’interdizione, di ciò che giace al fondo della materia personale e sociale) sono elementi che rendono Edipo re il primo titolo della filmografia pasoliniana in cui l’incorporazione del mito apre a un nuovo sguardo e una nuova posizione politica per ridisegnare il linguaggio che caratterizzerà le successive opere del regista, anche quando riguarderanno la borghesia. Almeno fino all’ultimo capolavoro, Salò o le 120 giornate di Sodoma,primo atto di un nuovo inizio che non c’è mai stato.

Info
Edipo re visibile integralmente su Film&Clips.

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