The Sunny Side of the Street

The Sunny Side of the Street

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Migranti e Hong Kong. Opera prima in lungometraggio, The Sunny Side of the Street di Lau Kok-rui spende una robusta parola sulla questione dell’accoglienza internazionale tramite gli strumenti espressivi di un tortuoso e fiammeggiante melodramma. Avvincente e commovente, dalla struttura scopertamente popolare, interpretato da uno splendido Anthony Wong. In concorso al Far East Film Festival 2023.

Scontro di civiltà per un furgone danneggiato a Hong Kong

Hong Kong, oggi. L’anziano tassista Yat conduce una vita solitaria, rifiutato anche dal suo unico figlio che va a nozze senza nemmeno invitarlo. Un incidente d’auto lo mette in conflitto con una famiglia di rifugiati pakistani che vive nelle vicinanze. La famiglia dei rifugiati è capeggiata dal padre di famiglia Ahmed, che nel contenzioso scaturito dal sinistro stradale deve difendersi anche dal pregiudizio etnico. Un secondo incidente fra i due risulta fatale per Ahmed, e Yat cerca di espiare il proprio senso di colpa prendendosi cura di Hassan, figlio di Ahmed poco più che bambino rimasto praticamente solo al mondo. [sinossi]

Le storie dei migranti riguardano l’essere umano a tutte le latitudini, e in tutte le epoche. Ovunque e sempre l’uomo si è trovato a spostarsi per il mondo, scontrandosi spesso con le diffidenze dei cosiddetti autoctoni. Così, in anni in cui l’Europa affronta ossessivamente la questione inasprendo spesso regole e steccati, arriva adesso The Sunny Side of the Street di Lau Kok-rui, presentato in concorso al Far East Film Festival 2023 di Udine, a ricordarci (o farci scoprire) che anche nell’Estremo Oriente il problema non è cosa di poco conto. Giunto alla sua opera prima in lungometraggio, Lau si è avvalso anche di proprie esperienze personali; di nazionalità malese, si è trasferito infatti a Hong Kong nel 2008 per motivi di studio, vivendo sulla propria pelle la scarsa propensione locale ad accogliere stranieri. In realtà il bel film che Lau ha confezionato espande su una doppia scala il discorso narrativo: quelle che vengono a confrontarsi sono due etnie in terra di Hong Kong, ma anche due (e più) generazioni.

Meraviglioso protagonista è Anthony Wong, nei panni dell’anziano tassista Yat, provato dalla vita, solitario, vedovo da molti anni, in astioso conflitto con il suo unico figlio, che va a nozze senza neanche invitarlo. Per un incidente d’auto Yat entra in conflitto con una famiglia di rifugiati pakistani che vive nelle vicinanze, e ciò suscita in Yat un consueto astio etnico che lo spinge anche a ricorrere a scorrettezze per ottenere ragione nel contenzioso sollevato dal sinistro stradale. Il suo atteggiamento è quello di chi, autoctono, pensa di disporre automaticamente di maggiori diritti rispetto a un qualsiasi rifugiato che viene da fuori. Lo scontro avviene primariamente con Ahmed, pakistano in ristrettezze che ogni tanto promette alla famiglia di migrare in Canada, ma sempre senza un vero esito. In realtà, lo stesso Yat, a suo tempo, fuggì addirittura a nuoto dalla natìa Cina per approdare a Hong Kong, per cui il suo risentimento è ancor più assurdo e frutto di una pura e semplice consuetudine mentale acquisita nel tempo. Un secondo incidente fra Yat e Ahmed è fatale per il rifugiato, e solo in quel momento l’anziano tassista inasprito dalla vita avvia un percorso di redenzione tramite l’incontro con il figlio di Ahmed, Hassan, poco più che bambino praticamente rimasto solo al mondo. In Yat, più di tutto, s’intrecciano due sensi di colpa: la responsabilità per la morte di Ahmed, e il dolore di non essere stato un buon padre. In questo senso l’incontro con Hassan può tramutarsi in una tardiva occasione di riscatto. Riuscire, per una volta, a essere un buon padre, sia pure per il figlio di qualcun altro.

Per i toni, le cadenze di racconto, i colori, il tipo di fotografia prescelta, The Sunny Side of the Street ricorda più il cinema del Medio che dell’Estremo Oriente. Siamo dalle parti infatti di quel realismo mediorientale che ormai da decenni, con piglio deciso e scarno, affronta di petto pressanti questioni socio-culturali. Fa anzi ancor più effetto la scelta di raccontare la città di Hong Kong tramite tali strumenti espressivi. Siamo abituati infatti a un’evocazione cinematografica dell’ex-colonia britannica spesso totalmente affidata all’enfasi sulla modernità urbana, sui grattacieli, sulle labirintiche highway, sulla tecnologia più avanzata, informatica e non, che regna sovrana sulle esistenze di tutti. Lau Kok-rui sceglie invece di abbassare il punto macchina, di scendere letteralmente ai piedi dei grattacieli. I quartieri che brulicano là sotto sono squallidi, sporchi, fatti di vicoli strettissimi, indecifrabili e minacciosi. Lo è anche la vita di Yat, che si srotola in taxi in mezzo a strade iper-affollate di altre vetture, di esseri umani e oggetti. È una vita di caos e di disordine, di improvvisazione quotidiana e di entropia. Di tirare a campare, anche, tra mille miserie morali e materiali. Non c’è alcuno splendore moderno hongkonghese, bensì la miseria di un tassista e l’isolamento totale dei rifugiati – le leggi locali, al riguardo, sono severissime.

Il film di Lau conserva dunque un franco approccio da consueto realismo di denuncia, che però sceglie di parlare al pubblico non tramite un attacco diretto e senza filtri, bensì tramite gli strumenti di un tortuoso e fiammeggiante melodramma. È innegabile infatti che nella struttura globale del film vi sia molto di eccesso e anche di improbabile (il doppio matrimonio in parallelo; il doppio incidente; il bambino Hassan che si impossessa di una pistola e finisce pure per usarla…), perlopiù dovuto a un intreccio vistosamente sovrabbondante di sciagure presenti e passate e di personaggi che in un modo o nell’altro risultano costantemente in conflitto (principalmente familiare) con altri. Tuttavia, il grande merito di Lau è da rintracciarsi nella capacità di fondere realismo e melodramma in modo da rendere l’amalgama narrativo perfettamente credibile. Il realismo stilistico interviene in qualche modo a calmierare gli eccessi del racconto, e la lunga peripezia tra Yat e Hassan (che invero soffre di un’introduzione fin troppo ritardata) alterna sagacemente momenti di suspense, di introspezione e di intonatissimo sentimentalismo depotenziato senza che si avverta mai lo scarto fra un registro e l’altro. Sul finale ci si scopre felicemente commossi, come quando ci troviamo di fronte a uno spettacolo al contempo popolare e intelligente, avvincente e significativo. In un ruolo splendidamente scritto, Anthony Wong giganteggia a piene lettere, conferendo al suo Yat, tassista metropolitano, un profilo sofferto e malinconico che qua e là si concede pure qualche simpatico accento di commedia. Così, mentre The Sunny Side of the Street spende una giusta parola in più sulla questione dei migranti e dell’accoglienza internazionale, il film si trasforma a poco a poco anche in espressione di cinema del piacere, fatto per essere vissuto e consumato palpitando fianco a fianco con i suoi protagonisti. Non sarà un cinema di profondità abissali, ma di sicuro è un gradevolissimo prodotto che mentre ci emoziona, ci fa anche riflettere. Ben venga.

Info
The Sunny Side of the Street sul sito del Far East.

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