Un amor

Un amor

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Ritratto di donna all’interno di un microcosmo in cui regnano isolamento, falsità e durezza. In Un amor la regista spagnola Isabel Coixet è alle prese con l’ennesimo dei suoi personaggi femminili colti in un momento di crisi e di trasformazione. Il film non sceglie la via più facile e sconta forse una durata eccessiva e alcune indecisioni nei toni, ma Laia Costa si rivela una scelta perfetta, in grado di restituire tutta la complessità del personaggio.

Desiderio di donna

Nat fa la traduttrice e ogni giorno si trova a tradurre le storie tragiche e terribili delle donne immigrate. Stressata, molla tutto e va ad abitare a La Escapa, un paesino della Spagna rurale. La casa è malconcia e fa, letteralmente, acqua da tutte le parti. Il padrone di casa è aggressivo, il vicinato sospettoso, i maschi, in generale, corteggiatori e predatori. Come Andreas, il vicino grande e grosso che si offre di ripararle il tetto. In cambio di qualcosa. Nat, in compagnia di una cagna semi randagia, resiste all’ambiente ed entra nel gioco di una passione ossessiva. [sinossi]

Isabel Coixet, classe 1960, originaria di Barcellona, aveva realizzato, tra la metà degli anni Novanta e quella del decennio successivo, alcune opere interessanti e di una certa risonanza, raccontando storie di donne spesso in situazioni limite: come dimenticare lo straziante La mia vita senza me (My Life Without Me, 2003), interpretato da una magnifica Sarah Polley? La sua carriera è proseguita poi negli anni senza molti clamori. Oggi si presenta in concorso alla 18esima edizione del Rome Film Fest con Un amor, un film “piccolo” (anche nel formato, 1,33:1), dimesso, persino scostante, tratto dal romanzo omonimo della scrittrice madrilena Sara Mesa. Al centro dell’occhio volutamente statico della macchina da presa c’è di nuovo un personaggio femminile. Una donna fragile, confusa, in cerca di sicurezze, ma anche dotata di una certa intraprendenza in termini di volontà e di desiderio. Attorno a lei, un ambiente nuovo e in parte ostile. Nat (Laia Costa), dopo aver lasciato il suo lavoro di traduttrice durante il quale si trovata ad ascoltare le più atroci e lancinanti storie di migranti, si è rifugiata a La Escapa, in un minuscolo centro di poche anime sperduto nella campagna, una piccola comunità dove tutti conoscono tutti e la gente chiacchiera, in prossimità di alcune montagne rocciose che s’innalzano in verticale, come falli. E siamo al primo simbolo manifesto: Nat – che ora fa la traduttrice freelance e lavora da casa – è infatti contesa da alcuni uomini che la desiderano: il suo scontroso e brutale padrone di casa (Luis Bermejo), che le ha appioppato una dimora cadente, piena di crepe e dalle cui tettoie malmesse, nei giorni di pioggia, trapelano ruscelli d’acqua; un vicino vetraio (Hugo Silva) solo apparentemente gentile, ma in realtà piuttosto ficcanaso e giudicante e non poi così amichevole e disinteressato come sembra. Infine, Andreas (Hovik Keuchkerian), un omone taciturno che tutti chiamano il “tedesco”, anche se tedesco non è, che a un certo punto si presenta sulla soglia di casa con una proposta indecente: è pronto a ripararle le varie perdite se lei andrà a letto con lui. Interdetta, Nat su due piedi rifiuta. Ma il giorno dopo si reca da lui e accetta. Da quel primo incontro, terminati i lavori come promesso dall’uomo, i due continuano a vedersi, ed è proprio Nat a prendere l’iniziativa.

La regista non chiarisce mai cosa spinge questa donna nelle sue scelte e nei suoi desideri. All’inizio sembra semplicemente uno spirito libero che si muove come più le piace, forse per capriccio o per solitudine. A poco a poco però s’intuisce in lei un malessere profondo, che probabilmente risale a ben prima della tristezza provocata da quelle lancinanti storie ascoltate di rifugiati che l’aveva spinta ad abbandonare il suo lavoro. Ma che si tratti di un certo grado di dipendenza affettiva oppure di una semplice fase di esaurimento, il punto è un altro. E cioè che le persone di quel luogo, inizialmente più o meno amichevoli, alla fine sembrano tutte in conflitto con le sue scelte e i suoi desideri, perché non sono quelli che loro si aspettano. Si percepisce, crescente, il loro giudizio e la loro ipocrisia. Vorrebbero metterla al suo posto, indicarle l’angolino dove andare a sedersi, a nascondersi, come farebbero volentieri con il suo cane, decisamente malvisto. A un certo punto, dunque, Nat non riceve altro che disprezzo, rigidità e brutalità. Si sente indesiderata e respinta, in quanto non corrisponde alle aspettative altrui, mentre le sue, di aspettative, non vengono nemmeno prese in considerazione. In tutto questo, dov’è l’amore del titolo? Non c’è, in effetti, se non nel legame che si crea tra lei e un cane malridotto che il padrone di casa la convince a tenere. Ha il muso pieno di cicatrici, è traumatizzato ma non cattivo. Nat lo chiama “Burbero”, impara a conviverci e a comunicare con lui e pian piano gli si affeziona moltissimo. È il cane il secondo simbolo portante: quelle cicatrici e quel comportamento imprevedibile sono un’evidente manifestazione esteriore delle condizioni interiori della protagonista. Il cane/cagna è ermafrodito (un caso piuttosto raro di compresenza di genitali maschili e femminili, le spiega la veterinaria), e questo ci rimanda ancora una volta alla confusione, magari non sessuale, ma comunque interiore della protagonista, che è ancora alla ricerca di una sua identità più forte, più profonda. Le fa da contraltare una coppia dei vicini di casa, che non fa altro che figliare, organizzare barbecue e progettare una piscina. La tipica “famiglia perfetta”, in apparenza, perfettamente inserita in quel luogo, come a lei non è invece dato fare.

A poco a poco in Un amor la rabbia di Nat emerge e le sue reazioni si fanno imprevedibili e la fiamma che covava sotto la cenare inizia a divampare di nuovo, o forse per la prima volta. Lo stile quasi documentaristico adottato fino a quel momento da Coixet si apre improvvisamente all’inquietudine, quasi al delirio, e dal dramma si passa a lambire i territori del thriller psicologico. Di fatto, il film alla fine forse non promette tutto ciò che mantiene, senza contare che soffre di una durata eccessiva e per certi versi ingiustificata. Tuttavia ne emerge il ritratto non convenzionale di una donna sfaccettata e non facilmente etichettabile. Quasi una sfida allo spettatore che è tentato di giudicarla, forse persino sfidato a farlo: perché Nat va proprio con il “tedesco”, un uomo evidentemente brutale e noncurante? Perché “se la va a cercare”? Coixet non fa nulla per rendere accettabile la sua protagonista, non solo da quella piccola comunità, ma anche da quella più estesa delle platee. E però, pur contornandola di figure maschili dai tratti spesso sgradevoli, non mette in piedi una storia apodittica di patriarcato e sessismo a colpi di slogan e imperativi ideologici, come fin troppo spesso accade negli ultimi tempi. Come ha sempre fatto con le sue figure femminili, la regista fa emergere la verità dall’interno, dai dettagli, dagli sguardi, e riesce in tal modo a restituire tutta la complessità del personaggio rendendolo “reale”, così come assai realistiche sono le scene di sesso fra lei e Andreas. Ed è, questo, il pregio migliore del film. Isabel Coixet si conferma inoltre un’ottima direttrice di attori. Laia Costa, venuta alla ribalta nel 2015 con Victoria, di Sebastian Schipper, aiutata dal fisico minuto e dal volto dolce ma nervoso, mostra qui una fragilità al limite della psicopatologia, ma anche un’istintività e una ricchezza di toni tale da far pensare a Geraldine Chaplin, soprattutto in relazione ai certi ruoli da lei interpretati per Carlos Saura.

Info
Un amor, il trailer.

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