Mama Mercy

Mama Mercy

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L’odissea capitolina di Mama Mercy, una delle centinaia di occupanti di un ex albergo in fondo alla Prenestina, è il modo con cui Alessandra Cutolo affronta non tanto il tema dell’immigrazione – che pure inevitabilmente fa capolino dal racconto – ma quello della necessità di una nuova coscienza collettiva, dell’atto individualistico come primo motore del Capitale. L’esordiente regista firma un’opera a basso costo, “sporca”, ma di dirompente vitalità umana e intellettuale. Nel fuori concorso del Torino Film Festival.

Per una stanza in più

In fondo alla Prenestina, a Roma, dove finisce la strada, un enorme palazzone tutto specchiato troneggia come un astronave o un vascello fantasma. È un vecchio albergo abbandonato e occupato da tempo. In quel microcosmo sono confluite, negli anni, centinaia di famiglie provenienti da ogni sud del mondo, con il loro carico di attese, dolori, bambini. Quell’ex hotel è lo sfondo di un incrocio ricco, tragico e gioioso di destini. Mama Mercy ha troppi figli e un marito che l’aiuta poco. Ogni giorno confonde i suoi passi con quelli intrepidi e affannati di decine di altre mamme occupanti – etiopi, sudanesi, marocchine, che con fatica cercano di dare un futuro dignitoso ai figli. Il sogno di Mama Mercy sarebbe avere una stanza in più, e permettere alla sua famiglia di “allargarsi” rispetto ai pochi metri quadrati che le sono stati assegnati. Il palazzone è una città nella città in cui solidarietà, competizione, miserie e nobiltà si intrecciano. [sinossi]

A suo modo è affascinante che Mama Mercy venga proiettato al Torino Film Festival proprio nei giorni in cui impazza nel mondo cinematografico italiano la polemica sui contributi selettivi “negati” a C’è ancora domani, scelta che secondo taluni starebbe lì a certificare l’assoluta cecità delle commissioni ministeriali incapaci di comprendere aprioristicamente il successo che avrebbe arriso al film diretto da Paola Cortellesi. Come Cortellesi anche Alessandra Cutolo è un’esordiente, ma si può essere abbastanza certi che il suo racconto di un’odissea capitolina in piena regola, alla disperata ricerca di un modo per riparare a un grave errore, non diverrà oggetto di discussione collettiva, non troverà spazio nelle prime pagine dei quotidiani nazionali, e non otterrà al botteghino una gratificazione economica particolare. Nulla di così bizzarro o ingiusto, vista l’abnorme differenza progettuale tra i due film, ma forse qualcosa su cui occorrerebbe prestare una maggiore attenzione, soprattutto per chi con il sistema produttivo nazionale si trova a dialogare, o persino a lavorare in maniera diretta. Come specificano i titoli di coda Mama Mercy è stato girato con due telefoni cellulari, e per le versioni vocali di alcuni canti sono state utilizzate “registrazioni sul campo, effettuate con il cellulare, di brani tradizionali (pubblico dominio) fatte dalle partecipanti ai laboratori”; immediatamente dopo si può poi leggere “Tutte le musiche sono state fornite a titolo gratuito dai musicisti che hanno condiviso la finalità del progetto”. Già, il progetto, vale a dire l’idea o forse l’ideale che dovrebbe muovere ogni opera cinematografica ben al di là – e ben prima – della propria base economica. L’opera prima di Alessandra Cutolo nasce in seno al laboratorio di cinema dell’Associazione Genitori Scuola Di Donato (fautrice di una “Scuola Aperta e Partecipata”) al di fuori dunque di qualsiasi schema ministeriale, lontana dalle logiche del tax credit o del selettivo.

Un dettaglio, quest’ultimo, che basterebbe da solo a collocare il film in quello spazio liminare, snobbato dai più, in cui si agitano le acque dell’indipendenza, al riparo dalle lusinghe del sistema come dalle sue minacce. Non è casuale che nel bel mezzo di questo bailamme, nella volontà di porsi al centro di una realtà sottaciuta o ignorata della Capitale – l’emergenza abitativa da un lato e le difficoltà cui vanno incontro i “nuovi” cittadini dall’altro – senza documentarla in modo pedissequo ma inserendola in una narrazione compiuta, e perfino archetipica (così l’odissea se non il prototipo del viaggio dell’eroe, qui alla ricerca di una redenzione prima dell’agognato ritorno a casa?), si rintracci anche il nome di Gianluca Arcopinto, che è intervenuto per dare una mano al film quando quest’ultimo era già in fase di montaggio. Un’opera così inclassificabile per i parametri del cinema odierno, dominato da loghi e da sovrastrutture che ne rendono possibile la realizzazione, che ha mandato in tilt anche i curatori del sito del Torino Film Festival, dove le peripezie di Mama Mercy sono state accolte nel fuori concorso: a oggi infatti nella pagina dedicata al film si può leggere, alla voce produzione “non reperibile, può essere che sia Axelotil, essendo Arcopinto il produttore”. Non è reperibile, la produzione, nella sua dicitura meramente di prammatica, ma è invece possibile percepirla a ogni inquadratura, a ogni stacco di montaggio. Produzione non intesa come reperimento fondi, ma come idea di un cinema che non si fermi all’ovvio, che non accetti la procedura istituzionale, che voglia ancora rivendicare il diritto di esprimersi, esattamente come quel finale che riprende il sit-in per il diritto all’abitare cui partecipano tutti i protagonisti del film.

Mama Mercy non è un documentario, lo si è già scritto, eppure è lì a fungere da testimonianza di un’esistenza ai margini che è sì quella della splendida protagonista (Confort Samuel, non professionista come tutti gli altri esseri umani presenti in scena), ma anche di un modo di intendere il cinema che mai come oggi appare come un’utopia, un volo pindarico. Chi cerca la perfezione estetica e stilistica non la troverà nel film di Cutolo: non vi sono i mezzi per poterla pretendere. C’è però, ed è ben più importante, una coerenza di senso, di visione umanista e cinematografica, e dunque in estrema sintesi politica; il dilemma morale che dapprima solletica e quindi danna la protagonista è tratteggiato con estrema cura, con una naturalezza che si corrobora di una profonda empatia umana. Dopotutto Mama Mercy non vuole che una stanzetta in più, lei che vive in quell’ex albergo occupato con troppi figli e senza tempo e spazio a disposizione. La corruzione del denaro, e dunque del(la) Capitale, è un rischio troppo grande per chi non ha alle spalle protezione, e non può sperare di trovare reale aiuto in un mondo che l’ha già catalogata prima ancora di conoscerla, o di preoccuparsi davvero della sua condizione di vita. Nella sporcizia del vero Cutolo trova le coordinate di un racconto che passo dopo passo, incontro dopo incontro, apre la visuale su uno spaccato sociale che è vivo, pulsante, e soprattutto desiderante. La ricerca del denaro – la donna è stata derubata dei soldi dei buoni che sarebbero spettati a tutti gli occupanti, ma d’altro canto lei per prima era solleticata all’idea di sottrarli – diventa il grimaldello per scardinare la retorica del racconto: la Roma sottoproletaria deve riappropriarsi del concetto di collettivo per poter ottenere ciò che le spetta, in una lotta di classe che dallo sprofondo può arrivare a lambire il centro cittadino. Cutolo mette a confronto l’immagine sacrale della Madonna/Madre con questa donna (e queste donne) occupanti, ribaltando la prospettiva in una direzione multiculturale, ma poi meticcia questo mondo con uno più antico, altrettanto marginale; è nello sposalizio tra le parti, in una quasi paradossale storia d’amore che tale non è, che Mama Mercy eleva il proprio sguardo, suggerendo la giustificazione del superamento della regola in un mondo che le regole le ha sempre fatte calare dall’alto, in una discesa piramidale che è lo specchio di una società deforme. Alessandra Cutolo esordisce con un’opera piccolissima e preziosa, che sa stratificare il discorso – trova spazio anche il racconto dell’altra odissea, quella ancor più ferale che prevede il superamento del Mediterraneo per raggiungere una libertà monca – e si pone come antidoto a un cinema istituzionalizzato sempre più uguale a se stesso, così ripulito da non saper più neanche riconoscere la propria lordura.

Info
Mama Mercy sul sito del Torino Film Festival.

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