The Discarnates

The Discarnates

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Traendo ispirazione dalle pagine del romanzo di Taichi Yamada, Nobuhiko Ōbayashi con The Discarnates (in originale 異人たちとの夏, vale a dire Ijintachi to no natsu) affronta il fantasy evitando e giravolte avant-pop che altrove l’hanno reso celebre e si muove in territori sofferti, malinconici, dove l’orrore assume le forme dell’invecchiamento, e della morte. Raffinato nell’utilizzo di una fotografia espressiva, The Discarnates è un viaggio interiore che si fa horror, o il contrario se si preferisce. Con uno straordinario Morio Kazama.

L’inquilina del terzo piano

Harada è uno sceneggiatore televisivo di successo. Un giorno il suo miglior amico gli annuncia che ha iniziato a frequentarsi con la sau ex moglie, notizia che lo manda su di giri. Mentre sta facendo delle ricerche per una sceneggiatura, incrocia un uomo che rassomiglia a suo padre, morto insieme alla madre di Harada trent’anni prima. L’uomo invita Harada a casa… [sinossi]

«È inutile, Trot, ricordare il passato, se non ha qualche effetto sul presente», scriveva Charles Dickens in David Copperfield, un’affermazione che sembra fare quasi il paio con ciò che tempo dopo vergherà di proprio pugno William Faulkner in Requiem per una monaca, per quello che è forse il più celebre e citato dei suoi aforismi: Il passato non è morto, in realtà non è nemmeno passato. Due asserzioni che senza troppe forzature si adattano alla visione di The Discarnates, un classico del cinema di Nobuhiko Ōbayashi che è tornato in auge in questi giorni a causa dell’uscita nelle sale italiane di All of Us Strangers, cioè a dire Estranei, il nuovo lavoro da regista del britannico Andrew Haigh. Estranei e The Discarnates partono infatti dal medesimo testo, un romanzo dato alle stampe nel 1987 da Taichi Yamada. Lo scrittore e sceneggiatore Yamada è venuto a mancare lo scorso novembre, a ottantanove anni, ma in pochi in occidente se ne sono resi conto: un destino che accomuna il romanziere (ma anche sceneggiatore, nonché assistente alla regia per Keisuke Kinoshita) a Ōbayashi, morto nell’aprile 2020 a ottantadue anni ma nel pieno di un fermento creativo che lo aveva spinto a dirigere in sette anni opere rilevanti quali Casting Blossoms to the Sky (この空の花 長岡花火物語, Kono sora no hana: Nagaoka hanabi monogatari, 2012), Seven Weeks (野のなななのか, No no nanananoka, 2014), Hanagatami (花筐, 2017), e Labyrinth of Cinema ( 海辺の映画館 キネマの玉手箱, Umibe no eigakan kinema no tamatebako, 2019). Eppure in pochi si sono degnati di ricordare un autore cinematografico così peculiare, raro nel saper fondere l’ultrapop e la sperimentazione, la riflessione teorica e il gusto quasi naïf per l’immagine in movimento. Coloro che non sono completamente digiuni della storia del cinema giapponese serbano per lo meno la memoria del folle, iconoclasta e inimitabile Hausu (ハウス, 1977) commedia teen-horror dai tratti fortemente sperimentali che è assurta col tempo a ruolo di cult-movie, ma il cinema di Ōbayashi è ben più stratificato, strutturato, e merita un approfondimento. La speranza è che tutto questo possa in parte scaturire dai meritati attestati di stima che sta ricevendo Estranei, e che potrebbero spingere gli spettatori in direzione di un recupero di The Discarnates.

Esattamente come il romanzo da cui prende l’abbrivio, The Discarnates in giapponese si intitola 異人たちとの夏, vale a dire Ijintachi to no natsu, traducibile alla lettera come “L’estate con degli sconosciuti”. Il titolo scelto invece per la vendita internazionale, con il suo riferimento ai disincarnati, enuncia già con forza la natura soprannaturale del racconto, che si sviluppa – esattamente come succederà trentacinque anni più tardi nel film di Haigh, che pure per il coinvolgimento sentimentale del protagonista sceglierà una figura maschile, diversamente dall’eterosessualità dell’originale nipponico – in modo del tutto naturale, anche se attraverso un’illusione. Harada infatti, lo sceneggiatore televisivo che vive solo dopo la separazione dalla consorte e appare schivo – non accoglie in casa nemmeno una vicina che gli si presenta alla porta con tanto di bottiglia per brindare insieme –, durante uno spettacolo di vaudeville, per l’esattezza un rakugo che è anche (illusione) uno spettacolo di magia incontra il padre che senza battere ciglio lo invita a seguirlo a casa. Peccato che l’uomo, esattamente come la madre del protagonista, sia morto in un incidente quando Harada aveva appena dodici anni. Se ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, dev’essere vero anche il contrario, ed ecco che Ōbayashi lascia che a dominare il suo The Discarnates sia l’assoluta normalità; chi si aspetta i pirotecnici calembour espressivi di Hausu o di altri titoli al limitar del fantastico troverà qui un lavorio diverso, che non rifugge ovviamente la dimensione onirica ma al tempo stesso la intesse in un racconto sentimentale credibile, quello di un uomo che vuole tornare a vivere ma lo sa fare solo in corrispondenza affettiva ed emotiva con dei defunti. In questo senso il film si tramuta anche in una interessante riflessione su un Giappone sempre più disincarnato, nel pieno della baburu keiki, la bolla speculativa che colpì il mercato immobiliare fino a esplodere poi nel 1991 (e non è casuale che il concetto di casa svolga un ruolo così centrale all’interno della narrazione); un Giappone che smarrendo le tracce della memoria culturale – di nuovo lo spettacolo di rakugo, ma anche i geta, le tradizionali pantofole di legno che sfoggia il padre di Harada in una inquadratura a dir poco significativa – si è perso, ed è ora solo e sballottato nel bel mezzo di forze che non sa controllare, e neanche davvero comprendere.

Questo approccio disadorno ed essenziale, che dimostra di poter esprimere la sua furia visionaria all’acme della narrazione, in una sequenza che è dolorosa e terribilmente orrorifica a un tempo, trova un alleato a dir poco centrale nell’utilizzo della fotografia, lavorata per l’occasione da quel Yoshitaka Sakamoto che fu fedele sodale di Ōbayashi. Ribaltando completamente la prospettiva canonica, Sakamoto attribuisce al passato ectoplasmatico una dimensione calda, gioiosa, carica di luce, mentre consegna al presente – quel presente in cui Harada è un uomo senza più punti di riferimento, essendosi anche separato dalla moglie: dettaglio questo che Haigh decide di lasciare in secondo piano, non assegnando al suo protagonista relazioni sentimentali pregresse –una tonalità bluastra, livida, notturna e dunque inevitabilmente incubale, nonostante tutto. Rifugio dalle delusioni dell’età e della vita quotidiana, il ritorno al passato di Harada assume le dimensioni di una messa in quadro della dipendenza, e del suo lento spingere in direzione della dissoluzione fisica oltre che mentale. Drogato di passato, Harada non sa più confrontarsi con il quotidiano, né sa regolarsi con le persone che lo circondano: ecco perché il suo fisico deperisce, avvizzisce. La discesa progressiva agli inferi dell’uomo è sottolineata – con pathos, ma anche con una sottile ironia – dall’irrompere in scena della celeberrima romanza O mio babbino caro, tratta dal quel Gianni Schicchi che Giacomo Puccini (su libretto di Giovacchino Forzano) basò su un episodio del trentesimo canto dell’Inferno dantesco. The Discarnates è allo stesso tempo un accorato melodramma, un nostalgico sguardo al passato intimo e collettivo, e un ammonimento sull’indispensabile necessità di confrontarsi col presente, con le sue distonie – i perenni lavori in corso per nuovi palazzi in cui collocare la nuova borghesia nipponica –, per trovare ancora un senso all’esistenza. Ne viene fuori un’opera a tratti inclassificabile, spaventosa e dolorosa, persino divertente, e che nel finale si tinteggia di riflessi dichiaratamente ozuani, con tanto di desaturazione verso il bianco e nero. Si può innalzare un ringraziamento ai propri cari defunti attraverso un filo d’erba, sorseggiando una birra, per un’epoca che non va mai dimenticata ma che è pleonastico e persino pericoloso pensare di poter rivivere.

Info
Il trailer di The Discarnates.

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