Come ho vinto la guerra

Come ho vinto la guerra

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Punto d’arrivo della prima fase della carriera di Richard Lester e suo film più ambizioso fino a quel momento, Come ho vinto la guerra è una feroce, allucinata satira anti-militarista, accolta all’epoca in modo controverso ma assolutamente da riscoprire oggi per apprezzarne la forza preveggente, anticipatrice di opere più famose che ne emuleranno lo spirito cupo e sardonico.

Anarchy In The Uk Army!

Seconda guerra mondiale. Al giovane tenente Goodbody, divenuto ufficiale nonostante le umili origini, è assegnato il comando della terza squadra del plotone fucilieri di stanza in Egitto. Con i suoi soldati, compie una serie di disastrose operazioni belliche: abbatte un aereo inglese credendolo tedesco, si fa derubare da un gruppo di italiani, fallisce l’assalto a uno strategico pozzo di petrolio tedesco. Il gruppo viene decimato. Il tenente familiarizza con un comandante tedesco che gli vende l’ultimo ponte rimasto intatto sul Reno. Alla fine della guerra tiene una riunione nella propria casa suburbana semidiroccata ma di tutta la squadra è rimasto un unico superstite [sinossi

“I saw a film today oh boy/The English Army had just won the war/A crowd of people turned away/But i just had to look/Having read the book” canta con voce indolente John Lennon in A Day in the Life, il pezzo-capolavoro che chiude il beatlesiano Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Sebbene il testo del brano si presti a molteplici interpretazioni, viene spontaneo leggere in questi versi una diretta allusione a Come ho vinto la guerra (How I Won The War, in originale) che Lennon gira come interprete nel ruolo del soldato Gripweed durante gli ultimi mesi del 1966 in Spagna, nella regione desertica dell’Almeria, la stessa dei primi western di Sergio Leone. All’epoca gli ascoltatori non possono cogliere immediatamente il riferimento lennoniano: l’album esce il 1 giugno 1967, mentre il film di Richard Lester giunge sugli schermi nell’ottobre dello stesso anno, dopo un intenso lavoro di post-produzione unito al fatto che il regista si mette immediatamente al lavoro sul suo progetto successivo, Petulia, ritardando l’uscita del film. Con la sua passione per il nonsense, i giochi linguistici, l’umorismo surreale, tutti elementi presenti non solo nei suoi testi per i Beatles ma soprattutto nelle sue due prove letterarie, In His Own Write (1964) e A Spaniard in the Works (1965), il musicista è evidentemente un soggetto perfetto per integrarsi nel mondo espressivo di Lester, fatto della medesima sostanza sul piano visivo e giocato sulla stessa abilità a sovvertire i codici di rappresentazione tradizionali cercando di aggirare le norme di un racconto più o meno ben strutturato. Di questa tendenza è modello esemplare Come ho vinto la guerra, che si può considerare l’apice della prima fase di carriera di Lester e una sorta di film cerniera, il cui parziale insuccesso commerciale inaugura un periodo problematico per il regista, contraddistinto da altri due progetti poco redditizi come Petulia (1968) e The Bed Sitting Room (1969) prima di una pausa dal set di quattro anni. Come per motivi diversi Joseph Losey o Terry Gilliam, Lester è un americano trapiantato in Inghilterra che si sintonizza immediatamente sulla lunghezza d’onda del paese di adozione, ne assimila umori e substrato culturale e li restituisce, opportunamente rielaborati, nei suoi film. O, se vogliamo, ancora prima di dedicarsi al cinema, visto il suo apprendistato televisivo con i Goons di Peter Sellers e Spike Milligan, la cui comicità surreale unita a uno stile registico nervoso e jazzato pone le basi per tutta la sua attività futura, dai due film con i Beatles, A Hard Day’s Night (1964) e Help! (1965) all’opera che gli vale la Palma d’Oro a Cannes, The Knack…and How to Get It (Non tutti ce l’hanno, 1965), spericolato incrocio di variegate, caleidoscopiche tecniche visive al servizio dello spirito ribellistico della nuova gioventù londinese appena diventata “swinging” che viene contrapposta ai commenti sardonici della vecchia generazione che la osserva.

Come ho vinto la guerra prosegue però il trattato su splendori e miserie dell’identità nazionale con toni assai più irriverenti e un umore che si fa, per la prima ma non ultima volta (si veda un film dal medesimo afflato umoristico/apocalittico come The Bed Sitting Room), vieppiù cupo e nichilista. L’approccio demistificatorio di Lester, che adatta un romanzo di Patrick Ryan, è coraggioso se pensiamo a un paese che aveva trovato innegabili unità e orgoglio di popolo proprio di fronte alla minaccia di una guerra totale e di una invasione straniera, che aveva saputo sviluppare uno spirito egualitario di fronte all’emergenza bellica che proprio il cinema aveva saputo esaltare attraverso gli esempi maturi della scuola documentaristica nazionale, su cui si stagliano per urgenza espressiva i lavori di Humphrey Jennings. Per l’ufficiale Goodbody incarnato da Michael Crawford, invece, la guerra è essenzialmente un gioco e come un’attività ludica, sia pure traumatica, la raffigura Lester: anche da morti si continua a perpetuare una sorta di finzione, tanto che i soldati caduti in battaglia ricompaiono sul set/campo di battaglia anche dopo la loro dipartita, opportunamente colorati proprio come le pedine di un gioco di ruolo. Non è un caso dunque che l’equazione tra sport e guerra si presenti come una costante dell’intera pellicola; gli italiani che rubano l’attrezzatura alla squadra britannica sono intenti a giocare a calcio subito prima della razzia e proprio Goodbody ha l’incarico di sistemare un campo di cricket penetrando per trecento miglia entro le linee nemiche. Per mettere in scena questo campionario dell’assurdo Lester trova uno stile adeguato, quasi in modalità guerrilla filmmaking e ribollente di trovate, ritmato in scene brevi e scattanti, con fulminei inserti dove i personaggi si rivolgono direttamente in macchina rompendo la quarta parete o facendo ricorso all’overlapping di voci che si sovrappongono, si danno addosso, talvolta fuori campo, aumentando il senso di straniamento. I tocchi di chiara marca surrealista (la sabbia del deserto utilizzata come zucchero per il tè, il personaggio del clown Juniper che suscita l’ilarità di un immaginario pubblico) acuiscono il senso di straniamento e sottolineano il non senso di questa funebre mascherata che non risparmia nemmeno una stoccata alla strisciante simpatia per il fascismo che si annida nelle fila inglesi, evidente nel già citato personaggio di Gripweed, seguace di Owsald Mosley e della sua British Union of Fascists. Oppure nel rapporto che intercorre tra Goodbody e il comandante tedesco, basato sul reciproco riconoscimento di una comune identità che, nel finale, assume le forme di un puro scambio commerciale svelando gli interessi del capitalismo che soggiacciono alla logica militare. Ma Come ho vinto la guerra, rivisto oggi, appare prezioso anche per come si pone in un rapporto dialettico con la storia del cinema e, su più larga scala, con la storia tout court. Sul piano filmico anticipa gli umori farseschi di opere come Comma 22 (Mike Nichols, 1970) e M.A.S.H.(Robert Altman, 1970) nel mentre opera una rilettura spericolata di alcuni classici del passato: a più riprese il commento sonoro riprende estratti dalla partitura di Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962) con intento evidentemente dissacrante così come il legame di fiducia e comprensione che viene a svilupparsi tra Goodbody e il comandante tedesco può essere letto come un rovesciamento parodico del complesso rapporto che legava De Boieldieu e Von Rauffenstein ne La grande illusione (Jean Renoir, 1937). Sul piano storico, il film è pienamente figlio del suo tempo e non si sottrae all’ucronìa distopica quando nel finale mette in bocca a un personaggio un esplicito, preveggente, riferimento alla Guerra del Vietnam di là da venire; segno che il pamphlet anti-militarista di Lester collega le epoche nell’ottica di una generale condanna della follia militare, rifiutando di porsi nell’alveo rassicurante della rilettura storica sia pure deformata dal radicale lavoro sul linguaggio e sull’esplicitazione della presenza agente, trasformativa della macchina-cinema sul materiale di partenza. Al risultato complessivo concorre poi il fondamentale lavoro sul cast, capace di lavorare unitamente su una dimensione teatralizzata, esasperata del conflitto; e che produce in taluni casi interpretazioni notevoli (varrà citare su tutte quella di Lee Montague nella parte di Transom, che a tratti s’impone per fisicità e furore). In una recensione dell’epoca sostanzialmente negativa, un giovane Roger Ebert rimproverava al film la sua incapacità a dialogare con un pubblico che non fosse quello inglese, tanto la tessitura dei dialoghi, delle espressioni, delle situazioni, è densa di riferimenti e ammiccamenti ai tratti fondanti dell’epos nazionale o più semplicemente a fatti e personaggi di difficile comprensione per gli americani: oggi, invece, la capacità di Come ho vinto la guerra di porsi in una posizione al tempo stesso integrata e defilata in seno al cinema britannico e di rileggerne la tradizione retorica con uno humour affilato e problematico, emerge forse come la sua maggior virtù.

Info
Come ho vinto la guerra, il trailer.

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