Un tram che si chiama Desiderio

Un tram che si chiama Desiderio

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Capolavoro senza tempo, sorretto da un pugno di interpretazioni straordinarie, Un tram che si chiama Desiderio di Elia Kazan conserva una potentissima carica espressiva nel dare corpo cinematografico al testo originario di Tennessee Williams. Realismo e delirio. Sogno e incubo. Una protagonista da fiaba che insozza le sue eteree vesti nel fetido pantano della realtà più degradata, mentre si avvia al calvario della più spietata umiliazione. Nichilista, disperato, schiacciante, senza via di scampo. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Diademi e Odorama

Proveniente da una casata benestante e caduta in disgrazia, la non più giovane Blanche, rimasta vedova in età assai precoce, perde la proprietà di famiglia ed è costretta a chiedere alloggio temporaneo a sua sorella Stella, che vive a New Orleans con il marito Stanley in un appartamento scarno e degradato. L’arrivo di Blanche in casa è male accolto da Stanley, uomo rude, violento e volgare che subito entra in conflitto con le ostentate raffinatezze della cognata. In seguito alle numerose sciagure che ha già accumulato, Blanche si è tramutata in una persona fragilissima, alla continua ricerca di speranze e illusioni che le impediscano di vedere la squallida realtà della sua vita. Intravede una possibile felicità in Mitch, amico mite e gentile di Stanley, ma col tempo il conflitto fra Blanche e Stanley s’inasprisce sempre di più, mettendo in difficoltà anche Stella, divisa fra sorella e marito.

Magliette strappate e atmosfere oniriche. Corpi sudati, cibo mangiucchiato, ambienti malconci e fetidi, e in parallelo una crescente sensazione di racconto intrapsichico, filtrato dallo sguardo distorto di un personaggio progressivamente alienato. Un tram che si chiama Desiderio (Elia Kazan, 1951) oscilla continuamente tra due poli espressivi – realtà e delirio – che trovano nel racconto una fertile compenetrazione. Nel cinema americano fra anni Quaranta e Cinquanta si insinua sempre più prepotentemente una vivida evidenza carnale e terracea, che tuttavia nei film tratti dalle opere teatrali di Tennessee Williams si accompagna più volte all’evocazione di un universo fitto di simboli e astrazioni. Il corpo tattile dell’attore è il contributo di un’intera nuova scuola (l’Actor’s Studio, fondato fra gli altri dallo stesso Kazan nel 1947) di cui in Un tram che si chiama Desiderio Marlon Brando si fa immediata incarnazione. Al cinema mai nessuno fino a quel momento fu probabilmente altrettanto corpo dell’apparizione di Brando nei panni (in senso più proprio che figurato) di Stanley Kowalski. Il cambio della maglietta sudata nell’umidità opprimente di New Orleans, la birra spruzzata in faccia, il torso nudo, la doccia con i vestiti addosso, la teeshirt lacerata che fa il paio con la camicia strappata, il cibo continuamente mangiucchiato con le mani direttamente dal piatto girellando per casa, l’imprevedibile svolta elegante del pigiama di seta nel brano più brutale del film, e non ultimi i ripetuti episodi di violenza fisica, espressione di una dimensione istintiva che esplode in superficie tramite una massa corporea possente e fuori controllo: Stanley Kowalski è carne oltre ogni possibilità, manifestazione di una sfacciata e debordante voracità che tutto vuol consumare, inghiottire, distruggere, in nome di una totale adesione alla dimensione del dominio.

Eppure, questo corpo così volgare e prepotente è oggetto di una tale esasperazione espressiva che finisce a sua volta nella dimensione dell’eccesso manierato e della trasfigurazione onirica. Fin dall’inizio Blanche è un personaggio decisamente piegato al delirio. Che sia necessità di sfuggire a una vita miserevole tramite le risorse della fantasia (ed è la primaria radice dei suoi comportamenti, condannata a raccontarsi frottole per saziare il proprio bisogno di magia) o vero e proprio sconfinamento nella follia, spinta a forza nell’alienazione dalle traversie della vita e soprattutto dalla crudeltà calcolata di molti dei suoi coprotagonisti, Blanche Dubois anela a un’esistenza da sogno e al contempo è torturata da incubi a occhi aperti, ben lontani dalle sue liete aspettative. Sogno e incubo, due facce della stessa medaglia. Più di tutto, Blanche è dilaniata proprio da quella corporalità di cui Stanley è portatore immediato e spudorato. È il Desiderio a torturarla, a darle speranza, e poi a perderla. Per raggiungere la squallida abitazione di Stella e Stanley, Blanche deve percorrere tre fermate di tram che, pur storicamente attestate a New Orleans, assumono evidenze immediatamente allegoriche: Desiderio, Cimiteri e infine Campi Elisi. È la stessa Blanche, ormai a un passo dalla conclamata follia, a definire il desiderio come l’opposto della morte. Senza desiderio non vi è più vita, e con tetra ironia tragica l’approdo alla gloria dei Campi Elisi è garantito dopo un percorso di totale e schiacciante degradazione individuale. Blanche è buona e merita i Campi Elisi. La vita, però, non le ha lasciato letteralmente nulla per cui gioire.

Fisicamente aliena al contesto brutale in cui si muove come una principessa d’altri tempi, Vivien Leigh non si produce soltanto in una delle prove più memorabili della sua carriera (e probabilmente dell’intera storia del cinema) ma dispone anche di una corporeità in totale antitesi rispetto alla debordanza di Brando e pure alla banale quotidianità degli altri comprimari. La Blanche di Vivien Leigh è una figura da favola, con gli occhi dolci, l’aspetto di una bambola di porcellana, la leggiadria di un elfo, che in ogni suo movimento sembra continuamente ballare saltellando sulle punte dei piedi. Ha vestiti eleganti, principeschi, anacronistici, spesso squallide copie di abiti eleganti, che fanno però a pugni con l’ordinarietà di Stanley e Stella. La sua presenza scenica è del tutto incongrua rispetto al contesto; sembra non avere corpo, e la sua fisicità trascolora nell’etereo dell’apparizione fiabesca. È proprio la corporeità a torturare e condannare l’esistenza di Blanche. Il desiderio va certo inteso in senso ampio, come globale aspirazione a una sorta di Ideale che rimane distante anni luce dalla spietatezza del reale. Ma la mancanza di conforto spirituale si traduce per Blanche in una fragilissima ricerca di sollievo nell’incontro fisico. Coinvolta pure con uno studente diciassettenne, Blanche dà probabilmente il primo robusto segno di scollamento dalla realtà al momento dell’inopinata visita del giovane sconosciuto in casa. Immagine di una gioventù che Blanche sta irrimediabilmente perdendo, il ragazzo è depredato di un bacio da parte della donna, per Blanche una sorta di primo congedo dalla vita che nella giovinezza trova la sua più completa espressione. Forse la reale visita di uno sconosciuto. Forse un delirio in carne e ossa partorito dai ricordi e dalla confusione mentale di Blanche, che nel corso del racconto proietta sempre più di frequente la propria crescente follia verso l’esterno secondo potenti linee visionarie dai riflessi espressionistici.

Gli svolazzi degli atteggiamenti, l’enfasi romantica di gesti e parole, i trasalimenti amorosi per Mitch sono come gettati in un secchio di fango. Elegante ed eterea, Blanche sembra sporcare se stessa e le sue vesti in un pantano di realtà degradata dove il suo spirito romantico è frustrato e umiliato, e dove un intero sistema, ridotto metonimicamente al microcosmo di casa Kowalski, la conduce a poco a poco a un totale annullamento di sé. Fin dalle prime battute si innesca fra Stanley e Blanche una coerente dinamica di attrazione/repulsione. In tal senso Un tram che si chiama Desiderio si delinea come uno spietato ingranaggio che indaga nelle pieghe più tetre della psicologia umana. Passo dopo passo l’atteggiamento di Stanley nei confronti della cognata assume i tratti di una conclamata e deliberata dominazione psicologica di matrice sadica. Stanley gioca come il gatto con il topo, cerca ogni strada per privare la donna di tutte le illusioni di cui lei disperatamente ha bisogno. Stanley fiuta la preda e le fa terra bruciata intorno. Si instaura anche un rapporto fra uomo e donna fondato sul pregiudizio, oltretutto condiviso da tutta la schiera dei personaggi maschili – pure il candido Mitch si rivela a conti fatti un radicato maschilista. Tutti anelano al corpo di Blanche, ma nessuno è interessato alla sua anima, poiché considerata “donna facile”. Lo stupro è l’atto finale di privazione anche dell’ultimo brandello di dignità. La sequenza in oggetto vede i due personaggi confrontarsi come aggressore e vittima di un attacco animale – fra i denti di Brando sibila un «Tiger!», e nel ghigno di Stanley subito rintracciamo il verso del gatto che l’uomo fa alla cognata alle primissime battute. Si spezza lo specchio. Si spezza la personalità di Blanche, che dopo la violenza subita può soltanto scegliere, senza più vie di mezzo, fra realtà e delirio. Ed è facile immaginarsi quale sarà la scelta. È spezzata ogni sua volontà. L’approdo ultimo, scientificamente perseguito da una catena di ineluttabili eventi e concause, è il totale annullamento della sua autodeterminazione. Rare volte è capitato di imbattersi in un film altrettanto capace di mettere a frutto la fonte teatrale del testo originario secondo riletture intensamente cinematografiche. La scarsa varietà degli interni si attaglia perfettamente al claustrofobico tracciato narrativo di un progressivo imprigionamento esistenziale. Di più: Kazan sceglie spesso di articolare i propri spazi scenici in una profondità visiva angusta e angosciante. I tre vani principali sono infatti disposti lungo un’unica direttrice che si sviluppa in profondità dall’avampiano allo sfondo, tenendo ben stretti i confini laterali degli spazi – in sostanza l’effetto è quello di un’abitazione progettata lungo uno strettissimo corridoio. Altrettanto funzionali risultano le soluzioni fotografiche e musicali, spinte verso la graduale e progressiva evocazione di un incubo a occhi aperti dalle cupe atmosfere. È un incubo realistico e delirante insieme. La miseria materiale degli ambienti, la miseria umana dei protagonisti sembrano condurre dalle parti di un esasperato naturalismo espressivo, ma al contempo ambienti, umori e personaggi sono caratterizzati dalla psiche malata e tormentata di Blanche, che lungo il racconto deforma sempre più spesso il contesto che la circonda. Il delirio è rintracciabile anche in quello stesso eccesso di miseria (e, all’opposto, di eleganza antiquata negli abbigliamenti di Blanche) che in ultima analisi si fa manierato e barocco. Insieme all’audiovisione dell’immagine sonora sembra di avvertire pure gli odori, ben prima dell’Odorama di John Waters.

Come sovente accade nel teatro profondamente decadente di Tennessee Williams, Blanche è una vittima sacrificale al femminile, divorata dalla passione e depredata di tutto in un mondo di uomini. In Un tram che si chiama Desiderio sembrano pure contrapporsi due dimensioni ontologiche che convivono nell’animo umano e che nella lettura di Williams/Kazan confliggono senza possibilità di compromesso: l’Ideale e la Realtà, spiritualità e materialismo. La vicenda di Blanche, Stanley e Stella trova un proprio immediato controcanto anche in una dimensione ontologica e universale. Il film si delinea infatti per una feroce disamina sull’istinto alla sopraffazione, secondo un preciso nichilismo esistenziale che vede nel desiderio la prima condanna alla quale il fallibile essere umano non può sfuggire. Perché desiderare realtà, quando si può desiderare magia? Perché cedere al pessimismo della mancanza di fiducia nei confronti degli sconosciuti, quando si può accogliere con un sorriso anche un gelido incaricato del manicomio? Kazan sceglie un finale appena più ottimistico rispetto al testo di Williams, giusto perché Stella mostra nel film un timido cenno di presa di coscienza. Ma è una consolazione da poco. Per più di due ore abbiamo assistito alla spietata e deterministica discesa agli inferi di una donna alla quale niente è perdonato, niente è concesso, e alla quale viene pure sottratto quel poco che ha. Compresa la sua dignità. Compresa se stessa, in ultima analisi. Più che a immediati richiami contingenti (che possono pure essere rintracciati, se si vuole, a cominciare dalla brutale sopraffazione di un Nuovo Mondo postbellico di ideologia capitalistica: del resto, come ribadisce Stanley con fierezza, «I’m born and raised in the greatest country on this earth»), Williams e Kazan sembrano alludere a una schiacciante condizione universale, dove l’individuo è destinato a perdere se stesso nella massa indistinta di una predatoria banalità. Destinato a perdere se stesso, per non perdersi.

Info
Un tram che si chiama Desiderio, il trailer.

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