Troppo azzurro

Troppo azzurro

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Filippo Barbagallo esordisce alla regia con Troppo azzurro, titolo con il quale cerca di trovare le coordinate personali di un racconto collettivo in cui lui rischia di essere facilmente catalogabile. Ne viene fuori una commedia di deformazione gentile, sincera, non priva di momenti ispirati.

Estate romana

Dario, 25 anni, è aggrappato al suo equilibrio da adolescente: vive ancora a casa con i suoi e ha lo stesso gruppo di amici dal liceo. Quando nel torrido agosto romano inizia a frequentarsi prima con Caterina, una ragazza conosciuta per caso, e poi con Lara, la ragazza “irraggiungibile” che ha sempre amato, dovrà scegliere se restare nella sua comfort zone o lasciarsi finalmente andare. [sinossi]
Cerco un po’ d’Africa in giardino
Tra l’oleandro e il baobab
Come facevo da bambino
Ma qui c’è gente, non si può più
Stanno innaffiando le tue rose
Non c’è il leone, chissà dov’è
Paolo Conte, Azzurro

Ci sono più modi per approcciare Troppo azzurro, l’esordio alla regia di Filippo Barbagallo che dopo essere stato presentato lo scorso autunno alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Freestyle” approda ora in sala, a ridosso delle chiacchiere sulla Croisette di quella estate che marchia a fuoco quest’opera prima. Il modo più semplice è senza dubbio quello di immergere il lavoro di Barbagallo nel gran calderone della commedia giovanile italiana, che sull’onda del morettismo vide e vede i protagonisti cimentarsi in prima persona con la regia dando poi vita malgré lui a quel fenomeno che venne ribattezzato “dei malincomici” (Francesco Nuti, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Carlo Verdone) che segnò in profondità il cinema italiano degli anni Ottanta e Novanta. Si può ovviamente partire da questa prospettiva, anche perché Barbagallo è figlio d’arte, e suo padre Angelo fu proprio co-produttore e sodale di Moretti prima dello scisma del 2007 in seguito al quale a capo della Sacher Film restò solamente il regista (e in più il film si avvale della consulenza artistica di Gianni Di Gregorio). Eppure, nonostante dei riferimenti persino troppo evidenti all’interno della messa in scena – e che forse nella loro dichiarata naiveté danno la misura della giovane età del neo-cineasta –, appare in un certo qual modo riduttivo leggere Troppo azzurro come la mera prosecuzione di un discorso altrui e pregresso, e non anche come una profonda rivendicazione d’identità, e di generazione. Un discorso non troppo dissimile lo si poteva fare anche per Romantiche, il film con cui si è cimentata per la prima volta con la regia Pilar Fogliati. Forse si dovrebbe leggere Troppo azzurro partendo proprio dal titolo, e in particolar modo dal termine “troppo”: se c’è nelle pieghe del racconto ordito dallo stesso regista, che per l’appunto interpreta anche il ruolo principale (quello del poco meno che trentenne Dario che non è ancora in grado di liberarsi dal gravame di un’adolescenza che a questo punto pare più subita che vissuta), un inevitabile rinvio a quella sensazione di sperduta solitudine, quasi una dimensione mistica, che cantò e fece cantare Paolo Conte decenni or sono, Barbagallo lo innerva di un vitalismo – pur gentile – che per sua stessa canonizzazione esonda, esagera, ammonticchia.

L’estate romana raccontata dal giovane autore non manca di molti dei punti fermi e delle abitudini del cinema italiano, ma l’impressione è davvero che Barbagallo cerchi di marcare il territorio, di proporre vicinanze e distanze, e soprattutto di trovare una propria voce, una propria via espressiva, una dimensione in cui possa emergere lui, e non ciò che accade da quasi cinquant’anni all’interno delle dinamiche produttive nazionali. C’erano i livornesi Virginiana Miller che in Tutti al mare cantavano «E nella testa c’ha la rima micidiale delle canzoni italiane che sono state scritte tutte sulla riva del mare» ed è la sensazione che rimanda anche Troppo azzurro, con la sua timida goffaggine, con lo sproloquio elevato a status emotivo-psicologico, con i dubbi e le incertezze – tanto narrative quanto di quando in quando cinematografiche –, e con una voglia di tenerezza che progressivamente prende il sopravvento su tutto il resto. Non imita, Filippo Barbagallo, ma vive: la sua condizione borghese non è poi così dissimile da quella in cui crebbe Nanni Moretti, o che ha segnato l’infanzia e l’adolescenza di Carlo Verdone. Perché dovrebbe la sua traiettoria di sguardo essere invece distante? Con Troppo azzurro Barbagallo mostra le proprie idiosincrasie, ma anche le abitudini in cui è stato pasciuto, e lo fa con una leggerezza forse a tratti eccessiva ma nondimeno coinvolgente, e almeno all’apparenza sincera, priva di birignao o di artefazioni particolari. Lontano anche dal concetto di bildungsroman, Troppo azzurro è il fermo immagine agostano in cui i personaggi sono bruciati dal sole (e nei sentimenti) esattamente alla stessa stregua di un branzino o delle verdure immerse nell’olio. Si vaga e si divaga, in questo film tenero e fragile come il suo protagonista – così viziato però da giovare arditamente e senza scrupoli con l’altro sesso –, e non ci si rende conto se non per qualche scelta ardita d’immaginario (quel quadro scomposto in nove frammenti a ricordare e immortalare la passione tra Dario e la riminese Caterina, ad esempio) che si sta cercando di comporre un fermo immagine di una generazione, o per meglio dire di una parte di essa. Quel che ne viene fuori è un film piccino e forse più prezioso di quanto si possa intuire a un primo sguardo, quando con l’occhio si sta cercando di collocare ogni singola inquadratura in un puzzle cinefilo già portato a termine da troppi anni.

ps. Bizzarra, e si ipotizza del tutto casuale, la similitudine tra il prefinale di Troppo azzurro e il finale della prima stagione di Tutto chiede salvezza (la serie Netflix firmata da Francesco Bruni), sia per il senso di ciò che accade sia – ancor più – per la scelta della medesima location.

Info
Troppo azzurro, il trailer.

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