All We Imagine as Light

All We Imagine as Light

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Alla sua opera seconda la regista mumbaikar Payal Kapadia firma con All We Imagine as Light il suo primo film di finzione, raccontando i desideri, le frustrazioni e le possibili svolte nella vita di tre donne di età differenti nella megalopoli del Maharashtra. Uno stile molto morbido, dolce, partecipe, rafforzato da uno sguardo tutt’altro che banale. In concorso a Cannes 2024.

Prabha, Anu, e le altre ragazze del mucchio

A Mumbai la vita quotidiana di Prabha viene sconvolta quando riceve un regalo inaspettato da suo marito che è andato a vivere all’estero. La sua giovane compagna di stanza, Anu, cerca invano di trovare un posto in città dove fare sesso con il suo ragazzo. Un viaggio in un villaggio costiero offre alle due donne uno spazio dove i loro desideri possono finalmente manifestarsi. [sinossi]

Vicino al mare più azzurro (per citare un capolavoro di Boris Barnet) i desideri di Prabha e Anu possono forse finalmente diventare realtà. Vicino al mare più azzurro e lontano dalla cappa opprimente di Mumbai, megalopoli dove un acquazzone può essere così impattante da impedire un matrimonio, e costringere a un repentino ritorno a casa; una megalopoli spesso notturna, in All We Imagine as Light, e in continuo movimento. Un movimento di persone, visto che nella gigantesca città arrivano praticamente da ogni villaggio dell’India, ma anche politico. Uno smottamento, un bradisismo che schiaccia verso il basso gli ultimi, com’è sempre stato ovunque e ancor più in una nazione divisa in caste. Payal Kapadia, che per la prima volta si confronta con un’opera di finzione ma nel 2021 portò sulla Croisette – alla Quinzaine des réalisateurs – l’esordio documentario A Night of Knowing Nothing, possiede una profonda vena poetica e lirica, ma sa rimanere ancorata alla realtà e non perdersi dietro voli pindarici. Il suo è un cinema profondamente politico e consapevole della necessità di uno sguardo che non sia volatile, superficiale, ma sappia scavare in profondità indagando il reale che si agita attorno. Ecco dunque che se nel suo primo lungometraggio metteva al centro del discorso le proteste dei suoi studenti al corso di cinema che tiene, qui immagina Mumbai come il teatro naturale in cui poter assistere a tutte le distonie della società indiana, nessuna esclusa. C’è chi passa di lavoro in lavoro senza mai trovare stabilità, chi in modo sindacale cerca di resistere – senza successo – alla dismissione di un numero impressionante di posti di lavoro, chi scopre di non poter rivendicare alcun diritto sull’appartamento in cui ha vissuto per oltre vent’anni perché non c’è mai stato in realtà nulla di scritto, chi preferisce tornare a vivere nella cittadina d’origine, magari abbandonando una professione per reinventarsi in tutt’altro ruolo. E ci sono poi i condizionamenti di una società cosmopolita ma ancorata alle tradizioni, a volte in modo anche ottuso. Kapadia non pone mai un accento giudicante su quel che va a riprendere, ma cionondimeno fa in modo che questi dettagli siano ben percepibili, e fungano quasi da collante per la storia che ha intenzione di raccontare.

Al centro di All We Imagine as Light ci sono tre donne: Prabha è un’infermiera, Anu una sua apprendista, e Parvaty è una delle cuoche dell’ospedale in cui lavorano. Le prime due vivono anche insieme, perché Anu è la coinquilina di Prabha, il cui marito anni prima è andato a vivere in Germania e oramai non dà più alcun segno di sé. Un giorno però un fattorino recapita nell’appartamento di Prabha un elettrodomestico per cucinare, che arriva proprio dalle terre teutoniche, e questo manda in crisi la donna, non tanto rispetto al concetto di matrimonio ma alla sua stessa esistenza, al modo in cui la conduce, a ciò che forse avrebbe dovuto o potuto reclamare. Meglio: desiderare. Consapevole del valore politico di tale verbo la regista – che è proprio mumbaikar, come direbbero in India, vale a dire cittadina di Mumbai, e quindi racconta un contesto che conosce assai bene – lo inserisce nel mezzo del cammin della vita del film, ed è l’elemento scatenante che produrrà la svolta della seconda parte, quando All We Imagine as Light dovrà muoversi verso la conclusione. Prabha ha dimenticato da tempo immemore come e perché si “desidera”, tanto che non sa nemmeno rispondere alla profferta d’amore di un medico di cui è palesemente invaghita (ha avuto una reazione di pura gelosia quando Anu si è permesse di civettare senza alcuna malizia con l’uomo) replicando con un “sono sposata” che per quanto risponda a verità non è un’affermazione sincera; Anu desidera il ragazzo che frequenta, che è musulmano – ma entrambi danno ben poco peso alle tradizioni di origine – e con cui magari potrebbe anche immaginarsi in futuro; Parvaty desidera, ora che la lotta con i suoi compagni è persa, solo tornare nella sua cittadina vicino al mare, dove “almeno ho una casa mia”.

Ma i desideri che nella città soffocano, come un po’ tutto, a ridosso della risacca si tramutano un po’ realmente un po’ oniricamente in realtà. Ed è qui, in questo luogo-non-luogo, che la capacità tattile di Kapadia di osservare il mondo e gli esseri umani deflagra in tutta la sua possanza, raggiungendo vertici di senso e poetici davvero sorprendenti (la sequenza in cui Prabha parla con un uomo che ha salvato dall’annegamento, l’avventura nella grotta di Anu e del suo ragazzo) e dimostrando come il cinema sia ancora oggi lo strumento artistico privilegiato per indagare l’umano, la sua stratificata complessità, le contraddizioni sue e delle società che ha edificato. Era dal 1994, quando sulla Croisette apparve Swaham di Shaji N. Karun, che l’India non prendeva parte al concorso del Festival di Cannes: un ritorno importante (e meritato) per una cinematografia fondamentale eppur difficile da “gestire” per il microcosmo festivaliero occidentale, con la certezza che Kapadia sarà uno dei nomi da tenere in maggior considerazione negli anni a venire.

Info
All We Imagine as Light sul sito di Cannes.

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