Risky Business – Fuori i vecchi… i figli ballano

Risky Business – Fuori i vecchi… i figli ballano

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Dominato in lungo e in largo da un Tom Cruise appena ventunenne, Risky Business – Fuori i vecchi… i figli ballano di Paul Brickman si delinea per una piacevole satira dell’American Way of Life e delle derive edonistiche di inizio anni Ottanta, alimentate da forme di sfrenato individualismo. Al Festival del Cinema Ritrovato 2024 di Bologna per la sezione Ritrovati e restaurati.

What the fuck!

Lasciato solo a casa dai genitori partiti per un viaggio, il diciottenne Joel se la spassa in piena libertà e su suggerimento di alcuni amici organizza un incontro con una ragazza squillo. Si presenta la bella Lana, che ha qualche problema con Guido, il suo sfruttatore. Oppresso dagli esami finali e dalle aspettative dei genitori per l’iscrizione all’università, Joel si concede a una settimana di inaspettate avventure, fra gangster aggressivi e gigantesche feste di piacere… [sinossi]

Sulla scia dell’enorme successo ottenuto da Top Gun (Tony Scott, 1986), in Italia furono recuperati un pugno di titoli con Tom Cruise come protagonista che ancora non avevano trovato distribuzione nel nostro paese. Fu il caso di Risky Business (Paul Brickman, 1983), che giunse nelle nostre sale con ben quattro anni di ritardo e con l’aggiunta del bislacco sottotitolo Fuori i vecchi… i figli ballano. Salutato da un ottimo successo di pubblico in patria (si piazzò al decimo posto degli incassi americani del 1983), il film fu accolto con simpatia anche dalla critica e per Tom Cruise si delineò come il ruolo di lancio per una brillantissima futura carriera – la giovane star ottenne pure una candidatura al Golden Globe per miglior attore di commedia o musical. C’è chi parlò di una rilettura anni Ottanta di Il laureato (Mike Nichols, 1967); più in generale, il film di Paul Brickman, giunto alla sua promettentissima opera prima per poi disperdersi in frammentarie esperienze professionali, sembrò registrare lo spirito dei tempi con grande acutezza, lanciando più di una frecciata all’American Way of Life del decennio votato all’edonismo più sfrenato. Risky Business si apre su una sequenza onirica improntata a un adolescenziale senso di inadeguatezza. L’attrazione erotica distrae dai pressanti impegni di un giovane proiettato a iscriversi a Princeton. L’esame di ammissione viene ciccato. Tuttavia, nella composizione rapsodica e improbabile dell’intero racconto il film sembra in realtà non abbandonare mai del tutto la dimensione del sogno. La bella ragazza sotto la doccia si materializza infatti poco dopo nelle graziose fattezze di Rebecca De Mornay, ragazza squillo che il protagonista Joel si decide infine a chiamare. Joel è un diciottenne assennato, bravo ragazzo e figlio apprezzato di una coppia di benestanti e convenzionali borghesi americani. È il “bravo figlio” fin dal cognome parlante – di cognome Joel fa Goodson. Tuttavia la formazione ricevuta dal ragazzo è improntata a una rigida efficienza che deve essere mantenuta tramite ottimi voti a scuola e l’obiettivo di iscriversi a un’università prestigiosa. La casa di famiglia tracima di status symbol ai quali i genitori sono ossessivamente affezionati – l’impianto stereo del padre, l’irrinunciabile uovo di vetro della madre. La freddezza e il gelo di una tale cornice familiare lasciano al ragazzo uno spiraglio di respiro quando, in assenza dei genitori, Joel ha casa tutta per sé.

Sulle prime, il piacere della libertà totale si manifesta in una scatenata danza rock in mutande, camicia e calzini di spugna. Poi, su suggerimento di un gruppo di amici debitori di qualche ascendenza nella coeva commedia demenziale americana, Joel è indotto, sia pure recalcitrante, ad approfittare della disponibilità della casa per organizzarsi qualche bel festino erotico. Dopo un tentativo a vuoto (per errore Joel ha chiamato una drag queen), il ragazzo incontra la bella Lana, destinata a portare scompiglio nella sua vita. L’improbabile assommarsi di numerose avventure nell’arco di pochi giorni, lo svariare continuo di toni e registri, fanno pensare per l’appunto alla prosecuzione del sogno iniziale lungo tutto il racconto del film. Da un lato Risky Business esaspera le situazioni di stress quotidiano che Joel affronta giorno dopo giorno – gli esami, i test, le assenze a scuola da giustificare a un’irreprensibile signora ridotta a esprimersi come un mimo, la preziosa Porsche di papà finita in acqua. Dall’altro, il film materializza i desideri e le vagheggiate trasgressioni di un giovane americano anni Ottanta. Sedurre una squillo fascinosa, ritrovarsi con lei invischiato in una sorta di noir dove è necessario difendersi dagli attacchi di un gangster minaccioso, scatenarsi in inseguimenti d’auto, fare soldi facili tramite la prostituzione, fare sesso su un treno di notte: Brickman condensa in 99 minuti i sogni a occhi aperti di un giovane anni Ottanta, trovando in una dimensione semi-onirica le ragioni di una sceneggiatura che con molta disinvoltura accumula rapidi mutamenti di registro e svolte narrative decisamente improbabili. A contribuire a tale atmosfera sospesa e frammentaria interviene il commento musicale dei Tangerine Dream, improntato a sonorità elettroniche da sogno/incubo metropolitano. È del resto molto interessante l’atteggiamento che Risky Business tiene nei confronti dell’ideologia capitalista americana, giunta negli anni Ottanta a uno dei suoi apici in termini di cinismo e aggressività. Brickman descrive il sistema americano come rigido e schiacciante, improntato a un’incessante plasmazione delle giovani generazioni al mito dell’efficienza e della ricchezza. Il sistema educativo procede per punteggi e classifiche; la competizione è scientificamente inculcata fin dai banchi di scuola. I genitori di Joel sono una presenza ossessiva nelle loro manie di preservazione dei propri beni, e le loro aspettative nei confronti del figlio sono soffocanti. Se sbagli, sei fuori. L’esistenza deve essere costruita su una catena di cause ed effetti privi di errori. Al primo errore, l’individuo è destinato a essere espulso dal sistema. Joel è perfettamente consapevole di tutto questo, e le sue voglie di trasgressione vedono la luce proprio dalla pesantezza di un siffatto universo di direttive e precetti. Tuttavia, per uscire da tale catena opprimente Joel non si affida a veri modelli alternativi di comportamento, ma semplicemente cerca scorciatoie. Se il capitalismo è soffocante, Joel cerca strade verso un capitalismo facilitato e spinto all’ennesima potenza.

Fregare il sistema, riconoscendone però l’efficacia e spingendo sull’acceleratore. Nella somma ipocrisia del sistema produttivo occidentale sono ammesse le peggiori scorrettezze per affermare se stessi e continuare ad accumulare denaro, a patto però di rimanere nel solco di condivise moralità di facciata. Capitalismo e puritanesimo: ci si può arricchire con tutto, ma guai a farlo tramite la prostituzione. Prendendo le mosse dal profilo di un ingenuo e bonario diciottenne che ancora va a scuola, Joel attraversa una rapidissima coming of age contrassegnata dalla presa di coscienza nei confronti di un sistema sbagliato e corrotto, del quale, con ulteriore giro di vite sul cinismo, si deve imparare ad approfittare. Tutto fuorché contestatore, Joel è l’espressione più compiuta di un preciso modello socio-economico, capace di incanalare anche il dissenso all’interno di se stesso tramite forme ancor più scatenate di arrivismo. Del resto, in un sistema interamente popolato da egregi professionisti, c’è anche bisogno di chi procuri loro piacevoli compagnie a pagamento – giunto a casa di Joel per un colloquio conoscitivo in vista dell’iscrizione a Princeton, il professor Rutherford non disdegna di partecipare alla festa con ragazze belle e disponibili in cui si ritrova catapultato. Accompagnato da un tappeto musicale di tutto rispetto (Prince, Phil Collins, Police, Talking Heads, Bob Seger, Bruce Springsteen) che come in poche altre occasioni restituisce immediatamente l’aria del tempo, Risky Business è sorretto da una buona regia caratterizzata da più di una raffinatezza – talvolta viene da pensare al cinema di Jonathan Demme, di cui Brickman sceneggiò Citizens Band (1977). Qualcosa di travolgente, del resto, finisce per conquistare anche Joel. La bella di turno, spigliata e spregiudicata, il poco di buono che la insegue, la scoperta della trasgressione e del piacere di trasgredire. La scoperta della violenza, anche, fisica e psicologica. Il finale vede Joel idealmente proiettato a una facile carriera come sfruttatore della prostituzione. Vi è in fondo un amaro senso di sconfitta nei confronti di un sistema per il quale il ragazzo non si sente adeguato e del quale ha avuto modo di testare tutta l’ipocrisia. Un sistema che valuta costantemente l’individuo sul principio della performance. Magari si può tentare di fuggire, ma l’immaginario resta comunque prigioniero dell’individualismo edonistico anni Ottanta anche nelle deviazioni dal pensiero dominante. Fare sesso di notte su un treno, per di più al ralenti. C’è ancora spazio per fantasie romantiche, ricollocate in un notturno contesto metropolitano. Fantasie in tutto chiuse nel sogno privato, nel piacere individuale.

Info
Risky Business sul sito del Cinema Ritrovato.

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