Breakfast Club

Breakfast Club

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Breakfast Club non è solo il titolo di punta della filmografia del compianto John Hughes, ma segna anche l’indiscutibile punto di svolta del teenage movie. Un caposaldo del genere, a cui Hollywood guarda con ossessiva continuità.

Gioventù aristotelica

Dear Mr. Vernon: We accept the fact that we had to sacrifice a whole Saturday in detention for whatever it is we did wrong. But we think you’re crazy for making us write an essay telling you who we think we are. You see us as you want to see us: in the simplest terms, in the most convenient definitions. But what we found out is that each one of us is a brain, and an athlete, a basket case, a princess, and a criminal. Does that answer your question? Sincerely yours, The Breakfast Club.

Queste le parole con cui inizia (e si conclude), The Breakfast Club – che nella dicitura nostrana perde l’articolo –, insieme a Ferris Bueller’s Day Off il capolavoro di John Hughes; era da tempo che carezzavamo l’idea di soffermarci su questa pietra miliare del cinema degli ultimi venticinque anni, ed è con tristezza che ci accingiamo a svolgere il compito a ridosso dell’improvvisa e prematura scomparsa del suo autore. John Hughes è stato uno dei cineasti meno compresi e più sottovalutati dalla critica italiana, e questo non lo scopriamo certo ora, motivo per cui l’occasione di poter disquisire sulle opere cardine della sua poetica si fa ancora più ghiotta. Partiamo dunque proprio da ciò che di Breakfast Club vi capiterà di leggere in giro: Paolo Mereghetti gli attribuisce due stelle su un massimo di quattro e scrive «il film gioca molto con gli stereotipi, ma riesce anche a rappresentare con una certa sincerità i problemi giovanili» (1); uguale la numerazione concessa al film di Hughes da Morando Morandini – ma con a disposizione un tetto massimo di cinque stelle – che si limita a sentenziare «All’interno del filone scolastico, è un film che, pur senza novità, riesce a prendere fino alla fine» (2).

Ecco, con tutto il rispetto del caso, ci troviamo di fronte a due letture completamente errate di Breakfast Club: ma forse conviene procedere per gradi… quando John Hughes pone la firma in calce a questo teen movie, siamo agli inizi del 1985, Ronald Reagan è stato da poco rieletto in pompa magna, l’Irangate non è ancora apparso all’orizzonte, e gli Stati Uniti d’America stanno vivendo l’apice del consenso repubblicano, che terminerà con il mandato affidato a George Bush sr. Da un punto di vista culturale e commerciale – e mai come nel penultimo decennio del secolo scorso la cultura è andata così di pari passo con il commercio – si esibiscono gli ultimi rigurgiti di new wave, con gli strascichi pop di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring a colorare una New York più che mai capitale cosmopolita. Nel campo cinematografico il nome di Hughes non è certo sconosciuto: ha sceneggiato due episodi del National Lampoon’s stanchi ma di successo (Riunione di classe e Vacation, con quest’ultimo una spanna sopra al precedente, non fosse altro per la presenza in cabina di regia di Harold Ramis e per le partecipazioni di Chevy Chase, John Candy, Randy Quaid e, segnatevi questo nome, Anthony Michael Hall), una commedia spassosa quanto misconosciuta agli occhi del pubblico italiano (Mister mamma, con un Michael Keaton in forma smagliante) e ha firmato il soggetto del robusto, ma noiosetto, Nate and Hayes. Ma, soprattutto, ha scritto e diretto Sixteen Candles, scatenata e al contempo gentile commedia che ruota intorno al sedicesimo compleanno dell’insicura Samantha Baker, interpretata dalla quasi esordiente Molly Ringwald. Il film ha letteralmente dominato i box office statunitensi, cosicché l’annuncio di un nuovo film, con la presenza della Ringwald come protagonista, solletica l’appetito di buona parte del pubblico a stelle e strisce. Già, il cast: oltre alla Ringwald, Hughes ripesca da Sixteen Candles Anthony Michael Hall – ve l’avevamo detto di segnarvi il nome! – e affida gli altri ruoli a Judd Nelson (già visto in Making the Grade di Dorian Walker e al lavoro in contemporanea anche sul set di Fandango di Kevin Reynolds), Ally Sheedy (molta televisione, ma soprattutto War Games di John Badham accanto a Matthew Broderick) ed Emilio Estevez (per il figlio di Martin Sheen già due ruoli importanti, nel bellissimo The Outsiders di Francis Ford Coppola e in Repo Man di Alex Cox); per i due personaggi di adulti vengono scelti John Kapelos, anch’esso già al lavoro con Hughes in Sixteen Candles, e il veterano Paul Gleason. Per la cronaca, al momento delle riprese Nelson ha 25 anni, Estevez e Sheedy 22, Hall e Ringwald 16. Vi capiterà non di rado, muovendovi nel microcosmo cinematografico statunitense degli anni ottanta dedicato all’adolescenza, di imbattervi nel termine Brat Pack, che tende a indicare la generazione di attori che si formarono proprio in quel periodo, spesso e volentieri prestando la propria professionalità per i teenage movie; bè, è giusto che sappiate che la suddetta locuzione venne creata proprio per riferirsi ai cinque protagonisti di Breakfast Club (3).

Abbiamo finora delimitato il campo della contesa, sottolineando per l’opera di John Hughes una prima importanza “storica” – la nascita del Brat Pack – e inserendola nel contesto più ampio dell’industria hollywoodiana a metà degli anni ’80. Basterebbe forse anche questo per rendere a Breakfast Club una dignità maggiore di quella riconosciutagli negli stralci critici che abbiamo avuto modo di citarvi in precedenza, ma il discorso è ben più complesso. Nel mettere mano al teenage movie – operazione che Hughes ripeterà anche nel meno convincente La donna esplosiva e nel clamoroso Una pazza giornata di vacanza – il cineasta statunitense non si limita a seguirne le regole in uso fino a quel momento, ma imprime loro un’impronta così personale da riscriverle quasi ex-novo: non è esagerato affermare che il teenage movie viva, al suo interno, due fasi distinte, che potremmo definire pre-Hughes e post-Hughes. Nel posare gli occhi su Breakfast Club vi troverete, ne siamo certi, a richiamare alla mente tanto American Graffiti (1973) di George Lucas quanto il meno conosciuto Fast Times at Ridgemont High (1982) diretto da Amy Heckerling su sceneggiatura di Cameron Crowe: operazione ben più che legittima, dato che senza dubbio Hughes deve aver visto e apprezzato entrambe le pellicole. Anche in Breakfast Club, di fatto, l’intenzione è quella di raccontare una generazione e, di riflesso, l’intero sistema statunitense. Ma mentre il lavoro della Heckerling sembra riecheggiare, e non poco, le dinamiche del capolavoro di Lucas, tanto nella gestione dei personaggi quanto nelle situazioni – e dopotutto parliamo di due film ambientati al sole della California, particolare da non sottovalutare – la sceneggiatura di Breakfast Club segue il tracciato per pochi metri, gisuto il tempo di assestarsi sulla strada, per poi decidere di sterzare di colpo. Partiamo proprio dal plot: laddove American Graffiti e Fuori di testa (questo il dimenticabile titolo italiano del film della Heckerling) raccontano i turbamenti delle giovani generazioni facendoli scontrare con il mondo esterno, Hughes prende cinque ragazzi e li rinchiude nella biblioteca della scuola (mostrandocela, in una serie di glaciali inquadrature fisse, in tutta la sua ambiguità di luogo di prigionia). Il mondo esterno non esiste, non è contemplato: a ben vedere qualcosa di assai più vicino, se vogliamo, al Big Chill raccontato con amarezza da Lawrence Kasdan nel 1983 (e anche in quel caso si trattava, guarda caso, del fermo immagine su una generazione). Un’operazione dunque assai più politica nella sua estremizzazione: non siamo più di fronte a una descrizione dell’America vista con gli occhi di chi vive il punto di passaggio dall’infanzia all’età adulta, ma semmai alla messa in scena dell’impossibilità, per chi è adolescente, di far realmente parte del tessuto sociale del proprio paese.

Ma se da un punto di vista spaziale la cesura con i due predecessori è netta, lo è ancor di più da un punto di vista temporale: non tanto per la durata dell’azione (più o meno simile a quella di American Graffiti), quanto per il momento dell’azione. In American Graffiti viviamo una notte con i personaggi che Lucas ci ha presentato, una notte nell’ultimo giorno d’estate prima della partenza per il college: un tempo che esula dunque dalla norma, in cui l’esuberanza dell’adolescenza può mostrare tutta la sua dirompente forza. Al contrario, il momento di Breakfast Club è l’orario scolastico, ma da vivere durante un sabato: un evento che sua volta esula dalla norma, ma per diktat superiore, per ordine impartito dall’alto. Ai giovani del 1985 non è più concessa la libertà d’espressione di cui godevano i loro coetanei nel 1962 raccontatoci da Lucas, e se vogliono concedersela devono, forzatamente, disubbidire all’ordine costituito. Altra riflessione politica tutt’altro che secondaria, o accessoria: Hughes si dimostra fine metteur en scene, e il suo modo di approcciarsi agli adolescenti più che ai suoi colleghi americani sembra possedere una scintilla europea, segnatamente francese – e non sarebbe un’eresia gettarsi in una disamina che mettesse a parallelo l’esperienza autoriale di Hughes con quella del Jean-Luc Godard degli anni sessanti. Breakfast Club è un’opera che riesce nell’arduo compito di rispettare le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, senza mai cadere nella banalità del superfluo e senza mai forzare la mano con elementi che devierebbero dal percorso; anzi, al contrario, è proprio la surreale derivazione dai prison movie a rendere ancora più forte la sottotraccia politica del film. Breakfast Club è una commedia che fa ridere solo a tratti, sempre pronto ad aprire dolorosi squarci nel cuore dello spettatore; Breakfast Club è un western mascherato, ne riprende la tipizzazione dei personaggi (il macho buono, la ragazza perbene e quella fuori di testa, il genio sottovalutato, il belloccio che dietro l’apparente strafottenza nasconde una profonda insicurezza) e ne rivive, sotto sotto, le tensioni. Tutti elementi che segneranno profondamente le regole del teenage movie.

Ma, soprattutto, Breakfast Club è uno dei film più sinceri che vi potrà mai capitare di incontrare sulla vostra strada: l’alchimia che Hughes riuscì a far sprigionare sul set dai cinque giovani attori è materia davvero rara, e sarebbe criminoso non riconoscerlo. Sono i cinque protagonisti la ruota motrice dell’intero ingranaggio: è nelle loro baruffe, nelle risate, nelle fughe scomposte per i corridoi, e soprattutto nella confessione delle rispettive paure – giocata magistralmente da Hughes con un movimento circolare della macchina da presa – che noi ci riconosciamo. Perché l’adolescenza narrataci da Hughes l’abbiamo vissuta tutti, chi più chi meno, sulla nostra pelle: senza bisogno di aggiunte, senza quel sublime tono grottesco che renderà immortale Una pazza giornata di vacanza – che di Breakfast Club è l’ideale gemello eterozigoto – solo con la semplicità dei campo-controcampo e di quella dicitura iniziale (e finale) che non può non mettere i brividi addosso.

Concludiamo questo excursus elencando alcune delle opere – tutte sarebbe francamente impossibile – che, più o meno direttamente, hanno citato Breakfast Club: un modo in più per comprendere l’importanza fondamentale del film e dell’intera esperienza autoriale di Hughes:

– Ne I Simpson, la fisionomia del preside Skinner è palesemente rimarcata su quella di Paul Gleason; dal film di Hughes deriva anche il tormentone di Bart Eat My Shorts!, tradotto in Italia Cicciuati il calzino!
– In Futurama, altro cartone animato creato da Matt Groening, il robot si chiama Bender (come il personaggio di Judd Nelson) e in un episiodio si vede l’LP della colonna sonora del film.
– L’episodio Detention, della prima serie di Dawson’s Creek, è palesemente ricalcato sul plot del film.
Dawson’s Creek, così come anche Gilmore Girls e Cold Case, citano ripetutamente – anche nei dialoghi – l’opera di Hughes.
– In Clerks di Kevin Smith si vede la locandina di Breakfast Club.
– Il misconosciuto gioiellino The Faculty, diretto da Robert Rodriguez su sagace sceneggiatura di Kevin Williamson (creatore, tra le altre cose, proprio di Dawson’s Creek), può essere tranquillamente considerata una versione horror/fantascientifica del prototipo hughesiano.

Ovviamente abbiamo citato solo le rirpese palesi del film di Hughes, dando per scontato che qualsiasi teenage movie dal 1985 a oggi, volente o nolente, si sia trovato a fare i conti con questo luccicante capolavoro. In attesa che anche la critica italiana si decida ad aprire gli occhi – una volta tanto neanche le lacrime di coccodrillo sembrano aver funzionato – voi non lasciatevi sfuggire l’occasione di fare l’incontro con una delle opere capitali per comprendere lo sviluppo, estetico e produttivo, del cinema statunitense degli ultimi venti anni. Perdereste anche l’occasione di imbattervi in un fragile, disincantato e gioioso, speranzoso e doloroso, viaggio sentimentale. E questo crediamo che sarebbe errore ancora più grave.

Note
1. Paolo Mereghetti (a cura di), Dizionario del film 1998, Baldini&Castoldi, Varese, 1997.
2. Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini Dizionario dei film 1999, Zanichelli, Bologna, 1998.
3. Brat Pack venne utilizzato per la prima volta da David Blum in un articolo pubblicato sul New York Magazine del 10 giugno 1985.
Info
Breakfast Club, il trailer originale.
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