Goliath

Goliath è il ritorno al Lido, in Orizzonti Extra, per il regista kazako Adilkhan Yerzhanov; un western che ragiona sulla vendetta ma in realtà allarga la visuale ai rapporti di forza nelle nazioni, appoggiandosi a citazioni di Niccolò Machiavelli.

Il braccio destro

Il villaggio kazako di Karatas è da tempo sotto il controllo di Poshaev, un boss criminale. Poshaev fornisce alloggi e posti di lavoro agli abitanti del luogo, ma elimina senza pietà chiunque osi opporsi al suo volere. Questa è la lezione che il povero Arzu sta per imparare in prima persona: sua moglie Karina ha informato la polizia dei crimini che avvengono in quel luogo. Arzu è storpio e ora deve crescere da solo la sua bambina. È così impotente e addolorato che non sembra nemmeno pensare alla vendetta. Poshaev lo prende sotto la sua ala e gli offre un posto come guardiano in un cantiere. Ben presto Arzu ha la possibilità di dimostrare la sua lealtà e diventa il braccio destro di Poshaev. Ma dove risiede la vera lealtà di Arzu: verso il suo capo o verso l’idea di giustizia? [sinossi]

Spazi immensi, dagli orizzonti infiniti. Terreno brullo, arido, polveroso. Solo qualche casa sparsa, lontana da altre abitazioni, avamposto di una umanità sempre alla ricerca della propria dimensione. Questo è il mondo che film dopo film continua a mostrare e raccontare Adilkhan Yerzhanov, regista kazako che dopo Yellow Cat torna alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con Goliath, il suo nuovo lavoro selezionato ancora una volta all’interno di Orizzonti, ma questa volta nella propaggine Extra dove trovano ospitalità le narrazioni che si aprono con maggior forza al concetto di popolare, se non direttamente di genere. Ed è in effetti un western a tutti gli effetti, Goliath, come già indicato proprio dalla scelta dei paesaggi. I protagonisti di questa dura vicenda di sottomissione e vendetta sono infatti immersi nella wilderness, e ne hanno anche interiorizzato gli istinti selvatici: sono esseri umani violenti, barbarici, privi di scrupoli, pronti a qualsiasi nefandezza, anche a togliere la vita al primo che passa, se può in qualche modo intralciare la via. E le prime immagini del film Yerzhanov le dedica a una esecuzione in piena regola, perpetrata ai danni di una donna che ha sporto denuncia alla polizia locale contro Poshaev, il boss criminale che insanguina l’area e che riesce in un modo o nell’altro a controllarla, per lo più ricorrendo alla violenza. Poshaev non ha alcuna remora morale, ed ecco dunque che la giovane Karina si ritrova un proiettile in testa, dopo essere stata stanata dalla casa grazie ai lacrimogeni. Karina lascia dietro di sé una denuncia di cui nessuno saprebbe cosa fare, una figlioletta e Arzu, suo marito, uno sciancato senza arte né parte. Poshaev, nel folle punto di incrocio tra pietà e massima umiliazione, lo prende a lavorare con sé.

Quello che sembra essere un revenge movie in piena regola, con tanto di suggestioni prese in prestito dalla prassi del western, sembra però non bastare al quarantenne regista kazako, che alza fin da subito il tiro per quel che concerne le ambizioni. Ecco dunque che a puntellare la struttura di Goliath ci pensa nientemeno che Niccolò Machiavelli: ad aprire, intermezzare e chiudere il film Yerzhanov pone infatti citazioni da Il Principe. Un modo per nobilitarsi agli occhi del pubblico? Può darsi, ma l’impressione è che proprio quei rimandi citazionisti servano a irradiare di reale senso il racconto. Perché se è vero che “gli uomini offendono o per paura, o per odio”, è ancora più vero che il rapporto tra lo sfortunato Arzu e il dispotico Poshaev assume ben presto un valore prettamente metaforico. Non ci si ferma al classico del revanscismo, vale a dire al semplice interrogativo su quale sarà la scelta di Arzu, se assecondare fino alla fine i comandi di colui che ha ucciso sua moglie o prendere le armi a sua volta e farsi giustizia da solo, l’ambizione di Yerzhanov vola più in alto. Come d’altro canto suggerisce Goliath, il titolo, il regista kazako vuole allargare il discorso dal particolare all’universale: ecco dunque la messa in scena della lotta dei sottomessi di tutto il mondo contro i Golia che li dominano, e che esistono tanto in Kazakistan quanto in Occidente, solo che utilizzano la violenza in modo differente, meno visibile ma non meno tragica negli esiti quella occidentale, più brutale ed evidente quella di Poshaev e della sua banda di criminali.

A questo dunque serve Machiavelli, e il suo “così come coloro che disegnano e paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongono alti sopra e monti, similmente, a conoscere bene la natura de’ popoli bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de’ principi bisogna essere popolare”; anche Yerzhanov, nella sua funzione artistica, cerca di essere a un tempo “principe” e “popolare”, ma in questa dicotomia così scoperta ed evidente nulla è lasciato davvero al potere del cinema, se non la potenza del paesaggio e la schematizzazione propria del racconto tipizzato. Ne viene dunque fuori un’opera per lo più cerebrale, quasi al limitar del didattico, in cui la narrazione e la psicologia dei personaggi diventano puri orpelli, così prevedibili nel loro utilizzo da non lasciare troppo spazio alla fantasia dello spettatore. Rispetto alle opere precedenti del cineasta si fatica a non provare un senso di delusione, per quanto la resa cinematografica sia comunque sgargiante.

Info
Goliath sul sito della Biennale

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