Muffa

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Il dramma di un padre alla ricerca del figlio in Muffa, opera prima di Ali Aydin e Leone del Futuro alla 69esima Mostra di Venezia. Presentato alla 27esima Settimana Internazionale della Critica, nelle sale italiane grazie alla Sacher Distribuzione.

La speranza è la prima a morire

Basri è un uomo solitario, che appare totalmente distaccato dalla propria vita. Lavora come guardiano delle ferrovie, controllando ogni giorno a piedi chilometri di binari nel vasto paesaggio dell’Anatolia. Il suo unico figlio, Seyfi, è stato arrestato 18 anni fa e da allora nessuno ha mai più avuto notizie. Dopo la morte della moglie, Basri si è lentamente isolato dalla società. Ma nella sua vita c’è ancora una speranza, che lo spinge, due volte al mese, a scrivere petizioni alle autorità per avere notizie del figlio… [sinossi]

Rischiava di finire in soffitta coperto da strati di polvere sedimentati a causa dello scorrere del tempo, ma per fortuna Muffa, esordio alla regia di Ali Aydin, è riuscito a trovare la via che porta alle sale nostrane grazie all’impegno profuso dalla Sacher Distribuzione per evitare che questo infausto destino toccasse anche al film che si è portato a casa il Leone del Futuro alla 69esima Mostra di Venezia, dopo la presentazione nel programma della 27esima Settimana Internazionale della Critica.

Un destino, quello di scivolare immeritatamente nel dimenticatoio, che ha non pochi precedenti, alcuni dei quali piuttosto clamorosi, a cominciare dallo straordinario Engkwentro di Pepe Diokno, capace nel 2009 di conquistare in quel del Lido la vittoria della sezione Orizzonti e il Leone del Futuro, ma tuttora mai distribuito dalle nostre parti. E a questo punto, a distanza di quattro anni dalla sua realizzazione, pensiamo che le speranze di riuscire a vederlo nelle sale italiane si siano ridotte oramai al lumicino, anche se il recente ripescaggio da parte dei responsabili di Distribuzione Indipendente di Bomber di Paul Cotter, la flebile fiamma la lascia ancora accesa.A questo punto, viene da chiedersi il perché di un confronto con la pellicola firmata dal giovanissimo regista filippino. La risposta è legata al fatto che, nonostante le aree geografiche di appartenenza siano topograficamente agli antipodi, in realtà i film hanno non pochi punti di contatto, a cominciare dal fatto che entrambi sono transitati a Venezia vincendo il Premio Luigi de Laurentiis che, dovrebbe quantomeno, convincere qualche lungimirante casa di distribuzione a inserirlo nel proprio listino; per non parlare poi del tema che affrontano, seppur con traiettorie drammaturgiche e stilistiche diametralmente opposte, ossia  quello dei desaparecidos. Se da una parte, Diokno ci trascina in una bidonville di Manila per raccontare una storia di educazione criminale che coinvolge due fratelli affiliati alle gang locali, prelevati con la forza e fatti sparire dalla circolazione come tanti prima di loro per mano dei cosiddetti “squadroni della morte”, chiamati a fare “pulizia” per volontà del Governo filippino; dall’altra, invece, Aydin decide di accedere i riflettori sulle misteriose scomparse nei primi anni Novanta di centinaia e centinaia di kurdi in seguito a una pratica molto diffusa messa in atto dalle unità speciali dell’esercito turco durante le fasi più cruente della lotta al terrorismo. Ovviamente, quello dei desaparecidos è un dramma legato a una pratica che può essere estesa a tutte le latitudini ed esercitata in epoche e aree geografiche diverse per i motivi più disparati, come nel caso del Brasile o di molti altri Paesi del Terzo Mondo dove la stragrande maggioranza delle misteriose scomparse dipendeva, e dipende ancora oggi, dal mercato clandestino degli organi.

Nel caso di Muffa, però, la storia della scomparsa del giovane Seyfi e la disperata ricerca lunga diciotto anni, portata avanti dal padre Basri al fine di ritrovarlo, è legata senza se e senza ma a motivi di carattere politico e alle idee di sinistra che il ragazzo, e tanti altri come lui, scagliavano contro una Turchia ideologicamente sorretta da un governo di estrema destra che non accettava alcuna manifestazione di natura reazionaria che andasse controcorrente. Ed è in un contesto di dura repressione come questo che nasce il plot del pregevole esordio di Aydin, un plot che scava in una ferita ancora aperta, che rappresenta una delle tante pagine nere e purtroppo vere del Novecento. Se il film di Diokno presentava punti di convergenza, dal punto di vista specificatamente drammaturgico le affinità elettive con i fatti e le dinamiche raccontate in Complici del silenzio da Stefano Incerti sono ancora più evidenti. Entrambe le opere si tingono di sangue, riportando in superficie brutali eventi che hanno segnato il destino di tanti. Con la pellicola del 2009, Incerti ci riporta nella Buenos Aires del 1978, nell’anno del Mundial di Calcio, che concentrava su di esso i riflettori dei media  di tutto il mondo, distogliendo l’attenzione delle gente e della stampa dalle gravissime violazioni dei diritti umani e dalle misteriose scomparse di attivisti e sindacalisti ordinate dalla Giunta militare di Videla. Si materializza così una sorta do filo rosso che di fatto congiunge la Storia al cinema, quest’ultimo veicolo per  raccontare drammatiche vicende realmente accadute attraverso il lavoro dietro la macchina da presa di due registi appartenenti a mondi e culture lontane. Ad allontanarli è solo l’approccio alla materia, partecipe quello di Incerti e più oggettivo quello del collega turco, ma non il desiderio che li anima di riportare a galla due tragedie grandissime.

Aydin evita qualsiasi tipo di spettacolarizzazione a favore di un racconto spoglio e minimalista, oggettivamente distaccato ma che non può lasciare indifferenti coloro che lo guardano, restituendo loro la sofferenza di un padre privato dell’affetto del proprio figlio e la solitudine istituzionale di un cittadino che non ha e non avrà mai voce in capitolo, privato del diritto a una risposta a una domanda sacrosanta. Il film ci restituisce con rispetto e una contemplazione mai morbosa la sensazione di un urlo di dolore soffocato in gola, che trova in un continuo vagabondare del protagonista tra i binari della ferrovia e le caserme della polizia la materializzazione di un dolore straziante. La macchina da presa del regista turco osserva gli eventi e il pellegrinaggio invisibilmente disperato di un uomo che vuole quantomeno un corpo da seppellire.  L’attesa di una risposta sul perché di una misteriosa e immotivata scomparsa fa sorgere nello spettatore un senso di angoscia crescente che si attacca alle pareti del cuore e della mente in maniera indelebile, sino al glaciale epilogo che mette solo apparentemente la parola fine al film. La messa in quadro asseconda in tutto e per tutto la messa in scena, attraverso reiterati e interminabili silenzi e un rigore formale che caratterizzano entrambi i piani sensoriali. La pregevole composizione dell’inquadratura e la scelta della fissità della macchina da presa contribuiscono a rendere la fruizione ancora più maledettamente insostenibile, alla pari della struggente e intensa interpretazione di Ercan Kesal nel ruolo di Basri, che si portavoce di un dolore latente che sta uccidendo lentamente un uomo, un padre e un cittadino come tanti.

Info
La scheda di Muffa sul sito della Settimana della Critica.
La pagina facebook di Muffa su facebook.
Il sito ufficiale di Muffa.
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