The Little House

The Little House

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Di The Little House ci resteranno impressi quei tetti rossi, simbolo di una vitalità gentile, di piccole giornate felici, e la partenza di Taki dalla prefettura di Yamagata, immersa nella neve e messa a dura prova dal vento. Come nei quadri e nei disegni di Itakura, ci sarà spazio per i volti di Taki e Tokiko, così distanti eppure così vicine. Ci resterà quel calore indescrivibile, quelle lacrime strozzate. Yamada ci lascia con un prezioso regalo, riesce a dare corpo al valore del passato e dei ricordi. Presentato in concorso alla Berlinale 2014, premio per la migliore interpretazione a Haru Kuroki.

Nel sole, nel vento, nel sorriso, nel pianto

Taki ha lavorato per anni presso la famiglia Hirai di Tokyo, prendendosi cura del loro figlio piccolo e servendo con amore e lealtà i due coniugi. Molti decenni dopo, oramai anziana, Taki scrive le proprie memorie, ripercorrendo le vicende di casa Hirai. Dopo la morte di Taki, il nipote Takeshi riuscirà a ricostruire alcune verità nascoste tra le pieghe dei ricordi… [sinossi]
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Ci sono film che non dovrebbero finire mai.
Della sessantaquattresima edizione della Berlinale, non tra le più brillanti, conserveremo soprattutto il ricordo di due titoli: Boyhood di Richard Linklater e The Little House di Yōji Yamada, capaci di imprimere sulla pellicola la straordinarietà della vita, della quotidianità, dei sentimenti anche solo sussurrati. Due opere assai distanti tra loro, ma che racchiudono grandi idee di cinema e che riescono ad andare oltre l’apparente semplicità del racconto.

Con The Little House si chiude la filmografia di Yōji Yamada, degnissimo erede di Yasujirō Ozu, regista classico, estremamente elegante, capace di dirigere la mastodontica serie Otoko wa Tsurai yo [1], di confrontarsi con il jidai-geki (la trilogia della spada: The Twilight Samurai, The Hidden Blade e Love and Honor), di scrivere e girare Tokyo Family, remake di Viaggio a Tokyo di Ozu. Ma in fin dei conti, a parte la parentesi chambara, Yamada ha sempre seguito le orme del suo maestro, ha continuato a osservare il mondo ad altezza tatami, a mettere in scena delicate variazioni di Tōkyō monogatari. Un cinema finemente cesellato, che riesce a racchiudere la storia di una famiglia e la Storia di una nazione tra le mura di una casa sulla collina. Una casa diversa dalle altre, signorile, dai tetti rossi. Yamada entra in punta di piedi in un melodramma familiare che non vive di scene madri ma di sottrazione, di accenni, di non detti: sotto quei tetti rossi pulsano passioni, pronte a esplodere o a essere taciute per una vita intera.

In The Little House convivono più storie, tra passato e presente, narrate da punti di vista sinceri ma sempre personali, parziali, filtrati dal ricordo, velati dalla commozione. Ci sono le storie d’amore, da quella ufficiale tra i coniugi Hirai a quella furtiva tra la bella Tokiko e il timido Itakura, fino alle pulsioni inconfessabili di Taki. Yamada traccia soavemente i contorni di queste avventure sentimentali, tra mani che si sfiorano e malcelati imbarazzi per un massaggio ai piedi, disegnando nel microcosmo della casa dei tetti rossi un rifugio ancor più piccolo: esemplare, in questo senso, la sequenza nella stanza di Kyōichi, con Taki e Tokiko che accolgono tra di loro l’impacciato e sensibile Itakura, mentre Masaki e i suoi colleghi discutono un po’ ottusamente di lavoro e politica estera.
Tra le pieghe del romanzo di Taki si aprono anche parentesi sulla storia del Giappone, sulla prima parte del complesso periodo Shōwa. Yamada ripercorre gli snodi principali dell’imperialismo e militarismo nipponico attraverso i discorsi di Masaki, i ritagli di giornali, le foto d’epoca, le notizie anche frammentarie dell’evolversi del conflitto sino-giapponese, della Seconda guerra mondiale, della decrescita economica del Sol Levante – i giocattoli in legno sono un capolavoro della narrazione. The Little House rievoca l’incidente in Manciuria, il Manshūkoku [2], la seconda guerra sino-giapponese, il disastroso conflitto mondiale, la sovrastimata alleanza con la Germania e la sottostimata entrata in campo degli Stati Uniti, fino al bombardamento di Tokyo, fino a Hiroshima e Nagasaki. Fino alle macerie della casa dai tetti rossi. The Little House racconta un’epoca che non c’è più, con tutte le sue contraddizioni, ma è anche la messa in scena di un cinema che forse non rivedremo, ultimo atto della carriera di Yamada, ultimo riflesso della grandezza di Ozu. Difficile imitarli.

Di The Little House ci resteranno impressi quei tetti rossi, simbolo di una vitalità gentile, di piccole giornate felici, e la partenza di Taki dalla prefettura di Yamagata, immersa nella neve e messa a dura prova dal vento. Come nei quadri e nei disegni di Itakura, ci sarà spazio per i volti di Taki e Tokiko, così distanti eppure così vicine. Ci resterà quel calore indescrivibile, quelle lacrime strozzate. Yamada ci lascia con un prezioso regalo, riesce a dare corpo al valore del passato e dei ricordi. Il maestro giapponese costruisce un commovente viaggio nella memoria del singolo e della collettività, intrecciando flashback, sovrapponendo precise date e sensazioni sfuggenti. Impreziosito dalla colonna sonora di Joe Hisaishi e dalle performance di Takako Matsu e Haru Kuroki (premiata alla Berlinale come miglior attrice), The Little House è un meraviglioso e struggente addio.

Note
1. La serie, conosciuta anche come Tora-san, è composta da quarantotto pellicole, quasi tutte dirette da Yamada, da It’s Tough Being a Man (1969) fino a Tora-san to the Rescue (1995).
2. Stato fantoccio creato nel 1932 dall’Impero giapponese.
Info
La scheda di The Little House sul sito della Berlinale.
 
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