The Nights of Zayandeh–rood

The Nights of Zayandeh–rood

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Presentato in apertura di Venezia Classici un film miracolosamente salvato dall’oblio, almeno in parte, di Mohsen Makhmalbaf: The Nights of Zayandeh–rood, opera del 1990 pesantemente mutilata dalla censura iraniana e comunque poi vietata. Un film che parla del potere e del popolo, di prima e dopo una rivoluzione.

Prima della rivoluzione

Il film, che tratta di un antropologo e di sua figlia, si sviluppa in tre periodi diversi: prima, durante e dopo la rivoluzione iraniana del 1979. La figlia lavora in un reparto ospedaliero nel quale vengono ricoverati pazienti che hanno tentato il suicidio assumendo farmaci. È un reparto mai vuoto. Le ragioni alla base di ogni tentativo variano da persona a persona, soprattutto prima e dopo la rivoluzione. Alla ricerca di una ragione per vivere, uno dei pazienti si innamora della figlia dell’antropologo. Un amore che si dimostra impossibile… [sinossi]

Tra le opere maledette della storia del cinema, insieme a Ultimo tango a Parigi, Ecco l’impero dei sensi e altri, va sicuramente annoverato anche The Nights of Zayandeh–rood (in originale, Shabhaye Zayandeh – rood) di Mohsen Makhmalbaf, realizzato nel 1990 e pesantemente sforbiciato dalla censura iraniana: sono rimasti solo 65 minuti dei 100 iniziali e in alcune scene l’audio è stato letteralmente abraso dalla pellicola. Anche della versione così pesantemente decurtata venne ben presto vietata la proiezione ma ora il regista, che da anni vive a Londra, è riuscito a rientrarne in possesso e il film è stato doverosamente presentato in apertura di Venezia Classici.
Sappiamo che lo stesso regista Mohsen Makhmalbaf da ragazzo è stato un giovane rivoluzionario, dalle idee forse un po’ ingenue. Finito in galera per aver accoltellato un poliziotto, come racconta nel film Pane e fiore del 1996, venne poi rilasciato una volta abbattuto il regime dispotico dello scià. In questo film, di sei anni successivo rispetto a The Nights of Zayandeh–rood, e forse in un clima un po’ più disteso, Makhmalbaf arrivava a un senso di riconciliazione incontrando la vecchia guardia che aveva ferito. E ancora in Pane e fiore veniva rievocato con nostalgia, attraverso le parole di un anziano, il cinema hollywoodiano classico che comunque, per quante malefatte avesse compiuto il satrapo, si poteva vedere durante l’epoca dello scià. E il cinema, ricordiamolo, ha avuto un ruolo centrale nelle vicende rivoluzionarie per l’episodio oscuro dell’attentato incendiario a una sala cinematografica, della cui responsabilità si sono rinfacciati il clero sciita e la polizia segreta dello scià.

The Nights of Zayandeh–rood è diviso in tre parti, prima, durante e dopo la rivoluzione del 1978-79. Protagonista è un antropologo dalle idee controverse sul potere. Le sue tesi sostengono infatti il bisogno connaturato nel popolo persiano di un potere forte, di una monarchia assoluta quanto dell’arrivo di un messia. Come ribadisce spesso, il suo non è un appoggio al regime, ma una spiegazione oggettiva, scientifica e pura, di chi si limita a studiare, osservare, senza voler prendere parte al conflitto ma rimanendone al di sopra. Facile vedere in questo ruolo una specie di figura didascalica a commento di un disilluso Makhmalbaf rispetto al fallimento degli ideali rivoluzionari cui per primo aveva creduto. E facile vedere nelle teorie del professore tanto il monarca quanto la teocrazia che ne è seguita occupando il potere nel paese. “Il rivoluzionario più radicale diventerà un conservatore il giorno dopo la rivoluzione”, diceva Hannah Arendt.
La dottrina dell’antropologo non viene ovviamente capita, nella sua sottigliezza e nelle sue sfumature, nella stupidità di un sistema dispotico (e stupido sarà anche il potere che si è perpetuato nel regime successivo come dimostrano le vicissitudini stesse di questo film) e comunque di una concezione diffusa in cui si deve attribuire per forza una posizione a una o all’altra fazione in conflitto. Viene rapito e interrogato dalla Savak, la polizia segreta, e in quel caso ritratta in parte le sue motivazioni, dichiarando di essere in realtà un apologeta dello scià, cosa che prima aveva smentito. Qui abbiamo una rappresentazione spettrale del potere da parte di Makhmalbaf. Si sentono solo le voci di chi conduce l’interrogatorio al professore, ma la grande stanza si scoprirà essere vuota con solo un grande ritratto del monarca Reza Pahlavi. Ancora la figura del protagonista si rivela commovente: capisce quello che sta succedendo e lo spiega come una consuetudine alla violenza propria del suo paese. E quando verrà investito da un’automobile, evidentemente a scopo intimidatorio, perdendo la moglie e rimanendo menomato, ancora non se la prenderà con il regime dando per scontato che sia così, come un disastro naturale o un fatto culturale assodato. I suoi strali saranno invece rivolti all’indifferenza di chi non si è fermato a soccorrerli.
Anche il controverso rapporto con gli americani è accennato nel film. A farsene carico è ancora una volta il professore che, in un raptus di follia, beve della coca cola urlando: “Bevo la coca cola, ergo sum”.

Parallelamente si svolge la vicenda della figlia, psicologa impiegata in un centro dove si curano i mancati suicidi sia dal punto di vista medico che da quello mentale. La casistica dei suoi pazienti è variegata e cambia prima e dopo la rivoluzione. In quell’ambulatorio arrivano i riflessi della società e dei suoi fermenti. Il caso di una donna, disperata per aver avuto un figlio martire della rivoluzione e uno controrivoluzionario, è indice del conflitto fratricida di una guerra civile. La stessa psicologa cambierà atteggiamento, convergendo verso una disillusione che la avvicina ai sentimenti del padre. Così, mentre prima tentava di dissuadere i suoi pazienti dal riprovarci, si rassegnerà e a un aspirante suicida arriverà a consigliare di firmare per una donazione d’organi, in modo che qualcun altro possa vivere. “Il tentato suicidio è spesso solo un modo per attirare l’attenzione degli altri”, spiega. E il film è la storia del suicidio di un intero popolo che affronta un bagno di sangue per scrollarsi di dosso un regime in favore di un altro sistema illiberale.

Sono tanti i segnali che Makhmalbaf dà dei cambiamenti sociali tra i due sistemi di potere. Se non può ricostruire la società sotto lo scià mostrando le donne senza velo – quando in effetti si è arrivati anche a proibirlo – ci mostra comunque una differente composizione nella classe del professore, mista prima della rivoluzione ed esclusivamente maschile dopo. “È facile far tacere il regista, ma è impossibile sopprimere il cinema”, dice Makhmalbaf. E le vicissitudini di The Nights of Zayandeh–rood sono la conferma e la dimostrazione dei suoi stessi assunti.

Info
La scheda di The Nights of Zayandeh–rood sul sito della Mostra del Cinema di Venezia.
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