Made in Hong Kong

Made in Hong Kong

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Alla prossima edizione del Far East di Udine, sul finire di aprile, verrà presentata al pubblico la versione restaurata in 4K di Made in Hong Kong di Fruit Chan, punto di (ri)partenza della cinematografia della città-stato dopo l’handover che la vide tornare sotto l’egida cinese. L’occasione giusta per riscoprire un’opera capitale, non solo sotto il profilo politico.

Lettere

Chung, soprannominato Moon, è un ragazzo che ha smesso di studiare e vive di espedienti, al soldo di un boss della mafia locale, in compagnia dell’amico Sylvester (colpito da ritardo mentale), che protegge dalle vessazioni delle bande di liceali. Un giorno conosce Ping, una ragazza che soffre di un male incurabile, e se ne innamora ricambiato. Un giorno una ragazza si suicida lasciando dietro di sé due lettere insanguinate. Ossessionato dalla sua immagine, Mi-Aout decide di cercare, insieme a Jackie e Ping, i destinatari delle lettere. [sinossi]

Made in Hong Kong presuppone fin dal titolo internazionale (traduzione letterale dell’originale cantonese) una rivendicazione, la certificazione di un’appartenenza geografica, politica, sociale ed economica. L’appartenenza a Hong Kong. Quando il film esce nelle sale in patria, grazie all’intuizione di Andy Lau, Shu Kei e Doris Yang, il 9 ottobre del 1997, la città-stato è tornata nelle mani della Cina da una novantina di giorni, dopo cento anni trascorsi sotto il regno britannico. Cosa ne sarà di Hong Kong? L’interrogativo rimbalza da una parte all’altra del globo, e vede impegnati in dissertazioni di vario tipo esperti di politica internazionale: cosa ne sarà di Hong Kong ora che il Regno Unito ripiega le bandiere e avanza la Cina, a riappropriarsi di un territorio piccolo ma indispensabile per il controllo economico e strategico del sud-est asiatico e dell’estremo oriente?
Made in Hong Kong si apre con la voce fuori campo di Moon, giovane protagonista della vicenda, che spiega agli spettatori quale sia già il suo destino: ha lasciato la scuola ed è entrano nella piccola criminalità cittadina. “Non ero bravo negli studi, ma il sistema scolastico non è certo migliore di me”; una frase che è già una sentenza, per una vita che, come il film mostrerà senza alcuna reticenza, non ha scampo. Non è prevista via d’uscita alle giovani generazioni di Hong Kong, almeno tra quelle che si agitano nelle classi proletarie e sottoproletarie, che ingrassano il sistema senza averne un granché in cambio. Non è prevista via d’uscita per Moon, Ping e ancor meno per Sylvester, grande e grosso ma non supportato da un’intelligenza altrettanto spiccata. Sono tutti e tre spacciati. Fruit Chan li riprende mentre si aggirano per la città, alla ricerca di destinatari di lettere insanguinate abbandonate da una loro coetanea che ha deciso di togliersi la vita. Sono come fantasmi. Sono già morti. Se all’epoca in molti scambiarono Made in Hong Kong per l’esordio alla regia di Fruit Chan, sbagliando (prima di lui vengono un paio di lungometraggi, entrambi poco interessanti), l’errore può essere considerato comprensibile. Di più, lo si può considerare come un’illuminazione. È in effetti da Made in Hong Kong, che Marco Müller portò in anteprima mondiale in concorso al Festival di Locarno nell’agosto del 1997, che è legittimo parlare del “cinema di Fruit Chan”.

Sono trascorsi venti anni dall’handover. Sono trascorsi venti anni da Made in Hong Kong. Sono trascorsi quasi venti anni anche dall’utopia di allestire un festival in Italia dedicato dapprima solo al cinema del “porto dei fiori”, e quindi immediatamente dopo aperto anche a tutto il resto del Far East. Ha dunque una sua profonda logica che proprio Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, insieme a L’immagine ritrovata di Bologna, abbiano portato a termine il restauro del film di Chan, che verrà presentato al pubblico della diciannovesima edizione della kermesse friulana. Fruit Chan tornerà dunque sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, a tre anni di distanza da The Midnight After, scheggia fantascientifica in cui una volta di più il regista hongkonghese traccia un disegno oscuro della sua patria, e del destino dei suoi abitanti.
Rivisto a distanza di due decenni Made in Hong Kong stupisce lo sguardo per due motivi: il primo è la già citata capacità di lettura di quel che stava avvenendo da parte del regista, in grado di cogliere senza esagerazioni la cappa soffocante che già stava calando da Pechino e che avrebbe influenzato in modo fortissimo anche la produzione cinematografica degli anni a venire; il secondo aspetto è la totale freschezza del film di Fruit Chan, che non fosse per il vestiario e le abitudini dei suoi protagonisti sembrerebbe girato ieri. Nel dover sopperire a una totale mancanza di fondi – il film fu girato con meno di 80.000 dollari, risparmiando su tutto, a partire dagli stipendi di chi vi lavorò – Fruit Chan sposa un’estetica brutale, sposando l’improvvisazione a una ricamata e sofisticata eleganza che gli permette di giocare con ralenti, rewind e inquadrature sghembe e fuori bolla senza far avvertire alcun senso di artefazione. Al contrario: Made in Hong Kong colpisce con ancora maggior veemenza lo spettatore, costringendolo a vivere in simbiosi con quei tre ragazzi senza futuro, un piccolo delinquente, una malata terminale e un ritardato. Seguendoli per strada, al cimitero, tra una scorribanda e l’altra.

Cinema da strada che non teme il realismo ma non accetta di mostrarlo senza interrogarvisi sopra. Gli attori sono come da prassi presi dalla strada, e lo stesso Sam Lee (che pure potrà permettersi una carriera professionista nel cinema hongkonghese proprio grazie a questa folgorante interpretazione) era davvero un teppistello, uno skater che riscuoteva il pizzo per i malavitosi del suo quartiere; ma Made in Hong Kong è anche un film profondamente scritto, per niente lasciato al caso sotto questo profilo. È l’occhio disperato che cerca di aggrapparsi a una patria disgregata che è sempre lì, ma ha cambiato ‘padrone’. Il ritorno a casa può essere dolcissimo, perché tutti gli hongkonghesi nell’ottica maoista erano figliol prodighi: ma può essere anche soffocante. Si può finire con l’annaspare. Made in Hong Kong è una tragedia dal montaggio frenetico e dai dialoghi incessanti; è la negazione del cinema action hongkonghese, e allo stesso tempo la sua perfetta sublimazione. È il ricordo di un tempo che non sarà più, e di una generazione mandata al macello, umiliata dagli altri (Sylvester), impossibilitata a salvarsi (Ping) o destinata comunque alla morte, al suicidio, al martirio.
Fruit Chan firma un lungo, esasperante – ma cinetico – rintocco funebre, il requiem per un mondo senza speranza; si può cercare una relazione attraverso lettere che non sono mai state spedite, ma fino a che punto si potrà continuare a sopravvivere? Siamo tutti dispersi nel grande cimitero, unico luogo in cui è sepolta da sempre l’umanità di Hong Kong, e non rispondiamo a un richiamo che riecheggia nell’aria. È proprio Moon a pronunciare le parole chiave che dimostrano l’eterna tragica contemporaneità di Made in Hong Kong: “Il mondo cambia troppo velocemente e quando ci siamo adeguati è troppo tardi perché è cambiato di nuovo”.

Info
Il trailer di Made in Hong Kong.
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