Il piacere

Il piacere

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Continua l’iniziativa “Happy Returns!” di Lab80, che rimette in sala dal 3 luglio in versione restaurata in 2K tre film di Max Ophüls. Tratto da tre novelle di Maupassant, Il piacere è uno dei suoi capolavori indiscussi, film di straordinaria modernità novecentesca su materia narrativa del secolo precedente.

Il tempo della mente

Attingendo all’amplissima offerta dei racconti di Guy de Maupassant, Max Ophüls sceglie “Le masque”, “La maison Tellier” e “Le modèle”. Il primo è il breve ritratto di un anziano parrucchiere che non si arrende al passare del tempo e si dedica ancora a danze sfrenate, nascondendosi sotto una maschera da giovane damerino. Il secondo, il più lungo e articolato, racconta della gita fuori porta nella campagna normanna delle ragazze di un bordello per una Prima Comunione. Il terzo dà conto del rapido declinare di una passione d’amore tra un pittore e una modella di ritratti. [sinossi]
“Mais mon cher… Le bonheur n’est pas gai”

Il piacere (1952) di Max Ophüls è cinema dell’altrove. Cinema che racconta del proprio altrove, che ragiona e riflette sul proprio luogo-non luogo originario, laddove il processo di narrazione prende forma e vede a poco a poco la luce. Luogo inattingibile, mentale, dove si mescolano memoria, sogno e fantasia, atto comunicativo e autocoscienza. Cinema che parla di se stesso con spirito spontaneo e non intellettualistico, che s’interroga sul processo di racconto non soltanto riguardo alle specificità del linguaggio della settima arte ma in senso strettamente universale. Dacché esiste l’essere umano, esiste anche il racconto, fondamentale azione di (auto)testimonianza configuratasi nei millenni come una delle peculiarità più irrinunciabili di qualsiasi cultura. Non necessario, eppure necessario.
In tal senso non appare casuale né semplicemente “industriale” la scelta di tradurre in audioimmagini tre racconti di un caposaldo della cultura francese, Guy de Maupassant. La fonte letteraria serve a Ophüls per allargare la propria riflessione, per evocare gli universali del racconto prendendo a esempio uno dei suoi conseguimenti più popolari e compiuti in ambito di letteratura occidentale: la narrazione francese ottocentesca.

Ma fin dal mirabile esordio Ophüls piega l’occasione narrativa a intensa rielaborazione e riflessione, identificando nella voce misteriosa di Maupassant l’assoluto atto narrativo che soggiace a qualsiasi tentativo di racconto, in cinema e non. Un cartello nei titoli di testa rende più univoca l’interpretazione di quella voce che esordisce su schermo nero nell’incipit attribuendogli l’identità dello stesso Maupassant, e più volte lungo il film interverranno elementi a corroborare tale lettura. Ma da subito la voce dell’attore Jean Servais parla da un altrove rimosso, inattingibile e assoluto. Afferma che potrebbe essere seduto in sala accanto a noi, e tra le righe fa intendere che la sua voce si emana da una dimensione di morte/dopo la morte. O prima della nascita.
La voce narrante accompagnerà costantemente la visione de Il piacere fino alla sua conclusione, costituendosi come parte integrante e assolutamente irrinunciabile nella fruizione del film.

Nel segmento centrale (“La maison Tellier”), il più lungo e più articolato, lascerà posto a una maggiore autonomia dei personaggi in scena, ma in linea generale da quella voce si ricava la sensazione di un’assoluta imprescindibilità espressiva. In sua assenza le immagini non avrebbero la stessa forza, né resterebbero altrettanto leggibili. In pratica, la voce non è altro che una prima (dis)incarnazione dell’assoluta istanza narrante, che duplica l’atto sotteso a qualsiasi racconto. È la voce dell’uomo ogni volta che si appresta a fare racconto in qualsiasi forma di telling. Cosicché, in questo strettissimo legame, la voce non fa altro che “generare” le immagini, in tempo reale, minuto dopo minuto, cercando di cogliere e restituire l’atto narrativo nel suo farsi, nell’assoluto presente del processo. Basti pensare alla magistrale introduzione del secondo segmento, con quel lungo movimento di macchina a rivelare dall’esterno, una dopo l’altra, le finestre della casa di tolleranza. La proverbiale maestria di Ophüls nel muovere in continuità la macchina da presa qui si sposa alla voce over e alla resa di un racconto che avviene, ed è rappresentato, nell’atto stesso del suo verificarsi. Racconto che racconta qualcosa e che al contempo racconta soprattutto se stesso, con piena e consapevole enfasi sugli specifici strumenti narrativi del cinema. Tra l’atto narrativo e la sua materia si frappongono così plurimi filtri, a spingere il tessuto narrativo sempre più lontano, sempre più verso l’altrove del passato, la memoria, il sogno. Probabilmente, la morte. Voce, macchina da presa resa personaggio tramite la sua incessante mobilità (mirabile l’incipit del primo segmento, “Le masque”, in cui la macchina danza insieme alle figure umane muovendosi in mezzo a loro), finestre o vetrate con duplicazione di sipario, e poi cancellate, ringhiere, arcate di strada, personaggi che finiscono spesso per nascondersi dietro a oggetti di scena o sono ostacolati alla visione da alberi e cespugli. E, tranne per la sezione del secondo segmento ambientata nella campagna normanna, il costante ricorso a riprese in studio.
Per Ophüls il sogno del narrare può avere luogo solo nell’estrema finzione dello studio, enfatizzata nella sua artificiosità, capace di traslare la realtà in una dimensione altra, quella del pensiero e dei processi mentali, lontana dalla percezione di reale.

Il piacere è così percorso da cima a fondo da una sostanza metalinguistica che dà forma a un racconto intento a inseguire i propri oggetti, come se stesse cercando di catturarli con fatica nella propria mente e memoria. Ma c’è un ulteriore salto, imprevisto e perturbante. Nell’esordio del terzo segmento (“Le modèle”) la voce narrante demanda le proprie funzioni e consegna se stessa a un cronista parigino, che si rivela personaggio attivo, secondario ma decisivo, nello svolgersi dell’ultimo racconto. Cosicché il salto nell’ambiguità del racconto qui finisce per essere triplicato. “Le modèle” si concretizza sullo schermo infatti come racconto ricavato dalle memorie di un ulteriore personaggio-filtro, e si chiude (e chiude il film) con un intersecarsi di piani diegetici e temporali sulla spiaggia del finale, dove lo spazio-tempo è del tutto annullato nell’incontro della materia del racconto con la propria istanza narrante. Non esiste più passato e presente, tempo del racconto e tempo del narrato. Jean e Josephine appaiono sulla spiaggia, lui invecchiato, lei meno, passando vicinissimi al narratore, ma senza che vi sia comunicazione tra di loro, né verbale né tantomeno prossemica.
Così Il piacere ci consegna uno dei finali più belli della storia del cinema collocandolo in un puro spazio mentale, spazio dell’altrove, dove chi narra materializza gli oggetti del proprio racconto in un non-luogo sospeso e crepuscolare, fatto di elementi scenici concreti che tuttavia perdono completamente i propri tratti di realtà (il vento, le sedie vuote sparse e abbandonate sulla spiaggia in campo lungo, le nuvole pesanti che agitano il cielo, i bambini che fanno volare gli aquiloni). Alla fine quel cronista narratore, che affida il proprio racconto a un amico, finisce per evocare lo scenario di un soliloquio mentale collocato in una dimensione fantasmatica.
Ne è prova anche lo scardinamento ed espansione della durata narrativa, poiché il racconto di “Le modèle” è racchiuso in una cornice (vediamo il cronista nell’incipit e nel finale) troppo breve per contenere circa 15 minuti di narrazione (dall’avvistamento di Jean sulla spiaggia all’attraversamento del finale, in una dimensione reale, passerebbero pochi secondi). Chi è dunque il cronista narratore? È davvero un amico di Jean? O è forse Jean stesso, invecchiato e malinconico, che riflette sul proprio passato materializzando immagini dei suoi pensieri? È Maupassant che si nasconde dietro a un narratore-filtro, o è nient’altro che una delle infinite personificazioni dell’istanza narrante?

Aderendo a una totale e ambigua soggettività di racconto, in “Le modèle” Ophüls fa dubitare anche del racconto stesso che si è visto passare sotto ai nostri occhi, poiché frutto di una voce narrante che ricorda e riferisce, ma con la possibilità che mistifichi anche mentendo a se stesso. Così, alle prese con una materia letteraria a suo modo tradizionale, Ophüls realizza un capolavoro meravigliosamente moderno, che interroga il linguaggio del racconto senza esibizionismi d’avanguardia. Raccontare è anche uccidere i propri personaggi, consegnarli sì ai posteri ma trasformandoli in oggetti finzionali, privandoli della propria autonomia in un processo di introiezione.
“Le modèle” appare paradigmatico anche in tale direzione, visto che racconta il rapido deteriorarsi di un rapporto d’amore tra un artista e la sua modella, che entra in crisi nell’esatto momento in cui i dipinti sono terminati. Anche Jean, narratore di Josephine sulla tela, la uccide nel momento in cui la narra tramite un intenso movimento d’introiezione ben esplicitato nella rapida serie di immagini mentali che danno conto della lettura di Jean su di lei.
È una linea che attraversa tutto il film, fin dal primo segmento “Le masque”, dove l’estenuato dedicarsi al piacere ha bisogno di nascondersi dietro a una maschera da giovane damerino per rimuovere lo spietato scorrere del tempo.

Resta invece una parentesi di speranza nel lungo episodio centrale “La maison Tellier”, l’unico girato per buona parte all’aperto e in luoghi reali in un’atmosfera solare, percorso da un doppio movimento emotivo di vivace giovialità e crepuscolarismo, in cui ricopre un ruolo particolarmente importante la riscoperta delle proprie origini culturali (la gita campestre delle prostitute per una Prima Comunione è venata da un profondo e antico sentimento di religiosità). All’interno della globalità del film, “La maison Tellier” è una lunga parentesi di piacere incorniciata da due brevi racconti di morte.
Piacere anche del narrare/filmare, con tempi dilatati e senza rispondere a stringenti necessità. Ulteriore racconto di possibilità non colte, di tentativi di riscoperta di una primigenia vitalità per non arrendersi alla propria miseria. Perché la vita è un breve brano d’infinito, preceduto e seguito dal nulla. Come il racconto, che dal nulla viene e nel nulla ritorna.
Il piacere è la vita che muore, minuto dopo minuto, come un racconto nel suo farsi. Eppure, senza racconto non si è niente.

Info
Il trailer di Il piacere sul sito di Lab 80 film.
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