Rocco e i suoi fratelli

Rocco e i suoi fratelli

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Capolavoro assoluto, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti è un potentissimo romanzo in forma di cinema dalle profonde stratificazioni. Colto e popolare, freudiano e marxista, dostoevskiano e verghiano, è la summa di un autore, di un cinema italiano ai suoi massimi storici, di un’idea espansa di produzione cinematografica. Di uno sguardo, soprattutto, capace di assommare in un unico film opera, melodramma, noir psicologico e ascendenze socio-antropologiche. Una meraviglia, ieri, oggi e sempre. Riproposto in sala per i 120 anni della Titanus di Goffredo Lombardo.

Sound of Destruction

Rimasta vedova, Rosaria Parondi decide di raggiungere dalla Lucania il figlio più grande, Vincenzo, che già da tempo si è trasferito a Milano in cerca di migliori condizioni di vita. Rosaria è accompagnata dagli altri suoi quattro figli, Simone, Rocco, Ciro e Luca, tutti maschi di diverse età. Mentre un conflitto fra famiglie rischia di mandare all’aria il matrimonio di Vincenzo con la bella Ginetta, Simone decide di tentare la carriera di pugile, incoraggiato da Nadia, una vicina di casa che si guadagna da vivere facendo la prostituta. Ben presto Simone perde la testa per Nadia, ma la presenza di Rocco, uomo buono e generoso fino all’autolesionismo, finisce per innescare una serie di impreviste e drammatiche conseguenze sull’intera famiglia…

«È ‘na brutta cosa, Ciro. Tu nun pòi sape’ quant’è brutta». Giunto al primo di una lunga serie di successi sportivi e professionali destinati a cambiargli radicalmente la vita, Rocco Parondi, emblema di una bontà e generosità che non conosce confini, scopre il Male dentro di sé. Sul ring dove ha appena sconfitto un avversario, ha combattuto contro qualcun altro, contro la figurazione sintetica di un odio accumulato negli anni di cui il giovane lucano prende coscienza soltanto in quel lancinante brano di dialogo con il fratello Ciro. Se già è stato rintracciato nel dostoevskiano principe Myškin di L’idiota (1869) un diretto modello letterario per il personaggio dell’angelico Rocco, d’altra parte la coscienza del Male nasce in lui tramite un percorso più connesso con ragioni socio-antropologiche. Assiduo narratore di disfacimenti familiari collocati in varie geografie ed epoche storiche, Luchino Visconti si appresta con Rocco e i suoi fratelli (1960) a dare corpo e voce alla drammatica potenza disgregante della modernità, messa a confronto con strutture sociali, culturali, antropologiche, psicologiche e familiari provenienti dallo sconosciuto Sud italiano. La famiglia tradizionale, la cellula autosufficiente che tuttavia mostra forme di spontaneo collettivismo, il destino di uno che è il destino di tutti; in un contesto così indubitabilmente compatto e unitario non c’è posto per il Male. Il Male emerge, semmai, dalla scoperta dell’individualismo, dal modello di una moderna società che reclama continuamente scelte e decisioni, robusti interventi dell’individuo sul proprio destino. Rocco si scopre sconosciuto a se stesso, colmo di un odio senza nome e senza volto, perché il nuovo mondo incontrato a Milano gli chiede di combattere per la propria felicità, mentre la sua felicità starebbe proprio nel sottrarsi dall’agone della vita per tornare a rifugiarsi in quella comunità collettiva (la famiglia del Sud) in cui all’individuo non sono mai poste domande perché l’interesse di tutti prevale sempre sull’io.

Eppure… eppure. Del tradizionale modello familiare Visconti registra la più squassante delle deflagrazioni (il film si apre con un suono orchestrale di distruzione, che sembra poi essere riecheggiato da lontano nell’esplosione sui titoli di testa di Gruppo di famiglia in un interno, 1974), ma al contempo non ne nasconde i molti lati oscuri. La madre Rosaria è una sorta di dittatrice che arbitrariamente concede e toglie affetti con costante atteggiamento di ricatto sentimentale. Una Medea ambivalente che tanto commuove e altrettanto si fa odiare per l’approccio schiavizzante nei confronti dei figli – appena giunta a Milano, investe immediatamente Vincenzo del ruolo di successore dei doveri di pater familias in assenza del padre defunto. E, sia pure a fin di bene, l’anziana vedova vede soltanto nel miraggio del benessere economico l’unica possibile vera felicità. Chi dei suoi figli non riesce nella vita, non è degno di essere ancora suo figlio. E intanto il tarlo entra nelle menti dei fratelli, rosicchia autodeterminazione e autostima. A fronte del progressivo calvario di degrado personale disceso, gradino dopo gradino, dal personaggio di Simone, è riservato proprio a lui, al culmine del dramma, un barlume di tagliente lucidità; tornato a casa dopo l’omicidio di Nadia e accolto dall’apprensione di Rosaria, Simone grida a Rocco, con tutta la rabbia possibile, che finalmente faccia stare zitta la madre, rompendo quasi in modo blasfemo il vincolo del rispetto nei confronti della sacralizzata figura materna. Il gesto d’accusa è netto; le psicologie dei fratelli Parondi, tanto serene all’arrivo a Milano quanto esasperate e torturate nel finale, sono il frutto di uno scontro sanguinoso con la modernità e con le aspettative, a loro volta nutrite dal miraggio del progresso, che mamma Rosaria ha alimentato e plasmato nei suoi figli. Benché ribollente di esacerbate passioni, innamorato delle sue urla e dei suoi conflitti condotti all’estremo, Rocco e i suoi fratelli si delinea in realtà per un asciutto atto di critica marxista/gramsciana alle magnifiche sorti e progressive di un’Italia identificata in una delle sue teste di ponte in quanto a crescita economica, quella Milano oscura e documentata da Visconti per lo più nelle fumose periferie popolate da scioperati.

A conti fatti, si tratta ancora del genocidio culturale di pasoliniana memoria. Sparisce un’intera Italia, spariscono ancestrali strutture sociali. Visconti però non mitizza quell’unità perduta; ne registra la demolizione come ulteriore fenomenologia del moderno, la cui irruzione in Italia tocca i suoi vertici proprio negli anni in cui il film è concepito e realizzato. Nessuno dei personaggi, in fin dei conti, raccoglie molte simpatie da parte di Visconti. Altro grande colpevole, Rocco vive così lontano dalla realtà da non riuscire a tradurre in alcun modo l’etica in prassi – splendido in tal senso (ma certo non si scopre niente di nuovo) il montaggio alternato fra il trionfo di Rocco sul ring e l’omicidio di Nadia all’Idroscalo («Copriti! Copriti!»), che lega idealmente le responsabilità di Rocco e Simone in un’unica colpa. Certo non è da amare Ciro, che sì intende rompere il muro dell’omertà familiare ma sulla spinta della scoperta dell’interesse individuale. In Rocco e i suoi fratelliogni scelta è duplice, in ogni desiderio c’è Bene e Male insieme. Irrobustito dall’etica del lavoro, dell’onestà e della crescita personale, Ciro si delinea in realtà per un perfetto esemplare di seconda generazione, distante da quell’idea di destino comune che con luci e ombre ha caratterizzato la sua famiglia fino a pochi anni prima. È l’uomo del futuro, Ciro. L’uomo del progresso, come pure testimonia il fiducioso pistolotto finale (quasi una parentesi di Realismo Socialista) sull’avvenire italiano. L’uomo del futuro che in quanto tale recide qualsiasi legame con il passato – non ricorda più il dialetto e i proverbi lucani, non ha alcuna nostalgia della terra d’origine. E non a caso Rocco sancisce la fine di tutto nel momento in cui Ciro decide di denunciare Simone. «Tutto è finito adesso»: l’atto di Ciro è il suggello finale sulla disgregazione dei Parondi, perché va a incidere direttamente sulla responsabilità del singolo nei confronti degli altri – per estremo paradosso, a farsi testimone di tale rocciosa comunione di destini interviene l’omertà, mirata a silenziare cioè la propria coscienza e le colpe dei congiunti per il fine “superiore” di tutelare la compattezza del nucleo familiare. Nessun atto di assunzione di responsabilità della vita dell’altro è più netto che tacerne le colpe. Ed è del resto la colpa l’unico vero assoluto psicologico italiano che permette al sistema-famiglia di tenersi saldamente in piedi – quasi insostenibile, in prefinale, il grido di Rocco sul letto che si attribuisce la responsabilità della morte di Nadia.

Se ama qualcuno (e la amiamo anche noi), Visconti ama Nadia. Personaggio femminile che paga più di tutti perché onesta con se stessa, l’unica davvero pronta a giocarsi tutto, finanche la vita. Rocco e i suoi fratelli affonda questa tellurica distruzione familiare in un ricchissimo humus letterario. Film che lavora intensamente su miti e archetipi, il capolavoro viscontiano ricerca con altrettanta furia viscerale modelli colti al suo dominante afflato popolare. L’idiota e I fratelli Karamazov di Dostoevskij, Thomas Mann, una base di verismo italiano riletto alla luce del melodramma operistico: Visconti immerge la struttura di La terra trema (1948) in un bagno di entusiasmanti eccessi espressivi. E, fonte più diretta e immediata, i racconti di Giovanni Testori raccolti in Il ponte della Ghisolfa, dai quali Visconti adotta nomi dei personaggi e varie situazioni rimescolandone spesso l’ispirazione in una forma narrativa nuova – vedasi come esempio per tutti il destino del personaggio di Duilio Morini, velatissimo omosessuale nel film. Visconti sembra poi tenere bene a mente sia il cinema americano anni Cinquanta dedicato alle gioventù senza pace – specie nella sezione centrale del film, chiusa dalla sequenza dello stupro di Nadia e dalla successiva scazzottata fra Rocco e Simone, emergono reminiscenze del cinema dei giovani James Dean e Marlon Brando, sia ovviamente la grande lezione del cinema di Jean Renoir e del realismo francese. Rocco e i suoi fratelli non teme di essere superficialmente basico (ma profondissimo nelle sue stratificazioni) né di ricondurre i suoi personaggi, a poco a poco, alle passioni più immediate e viscerali. In realtà, in questo groviglio di speranze e prigionie familiari ha luogo un balletto dei destini, che una volta di più rinchiude i personaggi nella schiavitù nei confronti dell’altro. Rocco sarà un pugile di successo senza gioia. Ruba il destino di Simone, ma per tentare invano di salvarlo, vincolandosi per sempre a una professione che non ha mai amato. Per converso, Simone ruba la felicità a Rocco nel modo più atroce. «Vince Rocco Parondi». Perde un intero modello socio-antropologico, spazzato via dal furibondo incedere del progresso e al contempo causa di un conflitto terribilmente distruttivo con l’Italia della modernità che pure alimenta l’illusione di un generalizzato benessere alla portata di tutti. Non è così. Rocco chiude la propria parabola trasformandosi in un inedito mito sulle prime pagine dei giornali, privato di qualsiasi desiderio e volontà, riassorbito in una nuova società dei mass-media del tutto spersonalizzanti. Le masse di operai dell’Alfa Romeo rientrano in fabbrica, richiamate dalla sirena di fine pausa. E il piccolo Luca si disperde nel paesaggio della metropoli lungo una strada dalla prospettiva dechirichiana. Benché desideroso di ritornare al paese, a sua volta si avvia probabilmente verso l’omologazione. L’Italia dei Parondi è finita, non esiste più. Nadia spalanca le braccia per accogliere la morte.

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Il trailer della riedizione di Rocco e i suoi fratelli.

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