Ludwig

Proiettato al Teatro Palladium per la Festa del Cinema di Roma in una splendida copia in 35mm fornita dalla Cineteca Nazionale, Ludwig è il trionfo del decadentismo viscontiano, in cui il cineasta metteva in scena il canto del cigno dell’aristocrazia europea, rinchiusa nei suoi castelli di specchi e in una sfarzosa e demente sindrome auto-rappresentativa.

Il catas-trionfo

Nel 1864 il diciannovenne Ludwig von Wittelsbach sale al trono di Baviera. Cerca da subito di favorire le arti, facendo chiamare Richard Wagner alla sua corte e poi facendo costruire una serie di meravigliosi castelli. Ma, sempre più, si disinteressa delle questioni di stato e non trova persona su cui poter contare. Si lascia dunque andare nel fisico e nei rapporti interpersonali, fino a venire destituito dal governo. [sinossi]

Nell’ambito dell’anche troppo variegata programmazione di omaggi al solito prevista dalla Festa del Cinema di Roma, ce n’è stato almeno uno dovuto e necessario, quello a Piero Tosi, il costumista recentemente scomparso, che ha insegnato per decenni al Centro Sperimentale e che vanta un’invidiabile filmografia. E, tra i tre film che sono stati mostrati alla Festa per celebrarne il ricordo, Ludwig di Luchino Visconti è stato senz’altro il più azzeccato, soprattutto perché è stato l’unico a venire proiettato in pellicola (gli altri due titoli erano Gruppo di famiglia in un interno, sempre di Visconti, e Metello di Mauro Bolognini). Questo è stato possibile grazie alla disponibilità del Teatro Palladium, tra le poche sale a Roma che ancora dispongono di un proiettore in 35mm. Peccato però che alla proiezione vi fosse poco pubblico, che difficilmente – e come dargli torto? – riesce ad abituarsi all’idea che il festival abbia il suo corso anche al di fuori di quella “chiesa nel deserto” che è l’Auditorium.

Ludwig, dicevamo, è stato dunque riproposto nella versione integrale di 237 minuti, in una splendida copia in 35mm fornita dalla Cineteca Nazionale. Il film, uscito nel ’73, all’epoca in versione tagliata per volere dei produttori, è tradizionalmente classificato come il terzo capitolo della trilogia tedesca di Visconti, dopo La caduta degli dei e Morte a Venezia, ed è ovviamente un film sulla fine, sulla definitiva sparizione di un mondo, quello dell’aristocrazia europea – e in particolare mitteleuropea – di cui lo stesso Visconti, per titoli nobiliari, faceva parte. In Ludwig il cineasta milanese mette in scena proprio la fase storica del sostanziale dissolvimento di quella casta di regnanti che aveva già perso il potere a seguito della Rivoluzione Francese ma che ancora si beava nella vacua esibizione di ricchezza e di ritualità kitsch. E, in tal senso, Ludovico II di Baviera diventa per Visconti il simbolo più estremo e radicale dell’auto-rappresentazione di un Potere che non è più tale, viste la sua passione per l’arte, il suo dispregio per le questioni politiche e l’intolleranza verso l’ipocrisia delle occasioni ufficiali.

Quella nobiltà che si sfalda, quell’avvento di politici politicanti a danno di re non più regnanti, quella progressiva perdita di potere racchiusa nel simbolo della corona (qui mostrata in una scena strabiliante per doratura del colore) si trasla in Ludwig nella dolente figura del protagonista incarnato da un sublime Helmut Berger, il cui corpo si disfa e si gonfia con il passare del tempo e con il progredire della sua estrema solitudine. Questi, una volta incoronato da giovanissimo, si ritrova dapprima senza la donna da lui amata (la cugina Elisabetta, imperatrice d’Austria, interpretata da Romy Schneider per un definitivo ribaltamento dell’immagine rassicurante della principessa Sissi da lei data nel film del ’55), poi senza il suo amato Richard Wagner, che lo ha tradito nonostante tutto quello che il re ha fatto per lui, quindi senza una sposa perché rifiuta di sposare la sorella di Elisabetta e ancora senza il fratello Otto, finito in manicomio. Infine, già senza potere, si ritrova anche senza una nazione e un popolo, vista la necessaria sottomissione alla Prussia di Bismarck, e in ultimo viene privato anche della corona. Uno ad uno spariscono dunque tutti i legami con il reale cui Ludwig poteva aggrapparsi e restano solo le finzioni, le messe in scena e le rappresentazioni. Ed ecco perciò che il momento più alto del film lo abbiamo nella fase in cui Ludwig irretisce con soldi e dorati regali un attore che aveva interpretato Romeo a teatro e lo costringe a recitare 24 ore su 24 solo per lui, fino allo sfinimento. Lì la messa in scena della sua vita e la vita come messa in scena si intrecciano in maniera tragica, e tutto – anche la tavola su cui pranza Ludwig, – diventa un praticabile semovibile di stampo teatrale che si può far entrare e uscire dal palco della sua esistenza.

A questa chiave di lettura performativa Visconti lega, con straordinario acume, l’ossessione di Ludwig per la progettazione e la costruzione di castelli, pensati come regge per la nobiltà, alla stregua di Versailles, ma mai utilizzati già nella realtà storica per la loro funzione sociale di ritualità e di socialità. In tal modo questi meravigliosi castelli bavaresi, che Visconti ebbe l’opportunità di riprendere dal vero, appaiono come vuote gallerie di specchi, come vacuo trionfo della fine di un’epoca millenaria. E, infatti, nel momento in cui, verso la fine del film, la cugina Elisabetta cerca di incontrare di nuovo Ludwig e, nel cercarlo, si ritrova a passare da un castello all’altro, eccola ad un certo punto entrare in un corridoio infinito strabordante di lusso, annegato nel kitsch, e non può fare a meno di scoppiare a ridere in maniera isterica e violenta. Questo brevissimo momento, da solo, ci descrive in un attimo una cosmogonia di sensazioni e ci induce a una serie di riflessioni, dal grottesco tentativo di voler essere ricordato a tutti i costi da parte di Ludwig, nel desiderio – inane in qualsiasi essere umano – di essere ricordato per l’eternità.

Visconti realizza tutto questo con un film che, a differenza di quel che succedeva ad esempio ne Il gattopardo, riesce a descrivere lo sfarzo senza essere sfarzoso, ma anzi quasi crudo, materico, nella ricostruzione degli ambienti, anche grazie a un uso precisissimo dello zoom, che attraversa lo spazio e si ferma spesso sui volti in primissimo piano, in particolare su quello di Ludwig, trasferendoci tutto il tormento interiore ed insieme esteriore dei personaggi. Questa arditissima ricostruzione storica viscontiana, tra i vari pregi, ha anche quello di sembrare – sorprendentemente – un dramma da camera persino quando è ambientata in esterni. Questo accade probabilmente perché tutto è estremamente carico, tutto è eccessivo, ma in maniera più decadente rispetto a un film come Senso, e allora persino le rive del lago in cui Ludwig ed Elisabetta si baciano sembrano degli interni, quasi fossero anch’essi parti della mente di Ludwig, quasi come se il bel sogno di una storia d’amore sia già venato dall’incubo della solitudine. Così, di nuovo, l’apice arriva nel momento in cui Ludwig entra in scena al cospetto dell’attore che ha fatto chiamare: vediamo il re all’interno di una grotta, a bordo di una barchetta circondata da cigni; e lo zoom che parte dal totale arriva fino al volto imbronciato e gonfio del sovrano, e lo sfarzo, il patetismo, il ridicolo, il sublime, il grottesco e il tragico si mischiano tutti insieme, fino a farci ridere e piangere contemporaneamente. Come solo i grandi sanno fare.

Info
La scheda di Ludwig sul sito della Festa del Cinema di Roma.

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