Sette note in nero

Sette note in nero

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Sinister Film e CG Home Video ripropongono in dvd il famoso e apprezzato thriller di Lucio Fulci. Uno dei suoi film migliori, raffinatissimo, teso e avvincente, sorretto da un’enorme consapevolezza teorica sul mezzo-cinema e da non banali riflessioni metafilmiche.

La riscoperta della serie B italiana è stata un vezzo degli ultimi vent’anni di critica. Talvolta si è rivalutato solo sotto il profilo del costume, talvolta per il gusto dell’eccentrico, talvolta totalmente fuori luogo, talvolta si è riscoperto davvero qualche bel film. Qualche volta capita anche di riscoprire un film enorme, che di serie B non ha davvero quasi nulla. E’ il caso di Sette note in nero (1977) di Lucio Fulci, ripubblicato adesso da Sinister Film e CG Home Video; in realtà il film non è un totale sconosciuto, e più o meno era considerato un classico del thriller all’italiana già prima dell’ondata di rivalutazione compiuta sul genere lungo tutti gli anni Novanta. A suo tempo era già stato indicato come un prodotto più elegante della media dei film di genere realizzati da Lucio Fulci, sorretto da una vera sceneggiatura e da un gran lavoro di sottrazione sulla messinscena. Ma rivederlo oggi ci dà una scossa ulteriore.
Il film di Fulci non è solo un dignitoso thriller industriale; è una vera lezione di cinema, che della serie B conserva solo qualche incrinatura di servizio, ovvero qualche residuo di sbadataggine narrativa che evidentemente, nel grande sforzo di rendersi adulti, non si è stati comunque capaci di evitare, forse perché l’intreccio è intricatissimo ed enormemente più elaborato (pure troppo) della media fulciana.

Nei meandri delle visioni parapsicologiche della protagonista, probabilmente lo stesso Fulci e i suoi sceneggiatori Dardano Sacchetti e Roberto Gianviti ogni tanto ci si perdevano a loro volta, e nel montaggio definitivo sono rimaste alcune sequenze ridondanti, talvolta contraddittorie. Ma poco male. L’apparato audiovisivo messo in campo è di primissimo ordine. Ispirandosi al giallo truculento all’italiana inaugurato da Dario Argento, il buon Fulci spesso lo scavalca per coerenza narrativa, per direzione d’attori e pure per stile.
Anzi, rivisto oggi Sette note in nero suona come una sorta di rimprovero stilistico al genietto-Argento, come a dire “Caro Dario, tu ci mostri orrori da voltastomaco, morti atroci e vagonate di sangue e violenza? Io ti dimostro che posso realizzare un thriller altrettanto valido, se non di più, con tre gocce di sangue e solo facendomi forte degli strumenti specifici del cinema”. Detto fatto: per 93 minuti Sette note in nero crea un’atmosfera tesa e avvincente, che afferra lo spettatore e non lo molla un attimo, andando a crescere sulla distanza verso un’ultima mezz’ora da antologia.

La vicenda vede Virginia, bella moglie inglese di un nobile toscano, alle prese con le proprie visioni parapsicologiche, cui nel prologo, ancora bambina, le mostrano il suicidio a distanza di sua madre, e trent’anni dopo ritornano per raccontarle un oscuro omicidio che coinvolge una signora anziana, probabilmente murata viva dentro una parete di mattoni. Successivamente Virginia riconosce la stanza delle sue visioni nel salotto di una villa abbandonata di proprietà di suo marito in mezzo alla campagna toscana, e dentro una parete scopre con orrore lo scheletro di una ragazza. Da lì si avvia un’indagine serratissima che alterna sapientemente stili e consuetudini diverse, tra giallo propriamente detto a struttura whodunit e thriller angosciante. Fulci prende le distanze dalle pratiche argentiane riservando innanzitutto un trattamento più rigoroso alla macrostruttura gialla, che pure è contorta e ipertrofica, fin troppo densa di risvolti narrativi e avvenimenti, ma che mantiene una propria generale credibilità malgrado qualche svarione (uno su tutti, l’erroraccio narrativo dell’amico parapsicologo che nota con stupore per due volte la data di pubblicazione sulla copertina di una rivista).
La costruzione della suspense si fa forte di una notevolissima consapevolezza teorica sul mezzo-cinema. Fulci ricorre soprattutto alle risorse del montaggio, spezzando spesso le visioni di Virginia in una serie di dettagli di scuola espressionista, riuscendo ad astrarre verso l’inquietante pure e semplici inquadrature di oggetti. Un posacenere turchese, una sigaretta poggiata, una gamba zoppicante, un taxi giallo, una stanza dai rivestimenti rossi, un pezzo d’arte sacra, una riproduzione di Vermeer con sopra un’enigmatica scritta a pennarello. In tutto questo, un solo pugno nello stomaco, la testa fracassata di un’anziana signora, che irrompe aliena in mezzo agli altri elementi: quasi uno schiaffo in pieno viso di teoria cinematografica a chi di quel sangue fa un uso spropositato.

Altrettanto teorica appare la scelta del soggetto, tutto fondato sul vedere, che di riflesso si trasforma in discorso sul vedere cinematografico. Nelle sue premonizioni Virginia vede e ricompone pezzi esattamente come fa lo spettatore al cinema, e prima di lui l’autore di cinema. Virginia vede, ma è un vedere ambiguo e opaco, e non a caso il fulcro della vicenda si avvita intorno alla difficile collocazione temporale delle sue visioni. In qualche modo Fulci eredita la riflessione sull’impossibilità del vedere, e in senso lato sullo scacco del cinema, non solo dall’epocale Blow-Up di Antonioni, ma anche dai suoi epigoni nel cinema di genere, a cominciare proprio da Dario Argento. Nell’esordio Sette note in nero è infatti debitore verso Profondo rosso per più versi: la villa abbandonata che custodisce un segreto, il cadavere murato nella parete (elemento che riscosse una certa fortuna nel cinema italiano del tempo, e in varie direzioni: lo ritroveremo infatti anche nel giallo-commedia Giallo napoletano di Sergio Corbucci, 1979), e anzi nella sequenza della scoperta del cadavere il debito si avvicina quasi alla diretta filiazione.
Jennifer O’Neill, la bella Virginia del film, si accanisce a picconate contro la parete come faceva David Hemmings nel prototipo argentiano, addirittura con un commento sonoro-musicale pressoché identico. La riflessione metafilmica si distende lungo tutto il film prendendo forme diverse; dalla sequenza esplicita e teorica di Virginia che riflette sul futuro, in cui “Ci sarà un carillon, una rivista e un taxi giallo”, e la mdp segue la sua voce senza stacchi a inquadrare i tre oggetti, agli abbaglianti flash in dettaglio delle macchine fotografiche (altro strumento che tenta disperatamente di riprodurre e conquistare il reale), ai ripetuti dettagli sugli occhi di Virginia, fino all’ultima magistrale mezz’ora, in cui Fulci inserisce una fantastica sequenza in soggettiva. Una corsa angosciata verso una porta della villa, ripresa dal punto di vista di Virginia e resa ancor più terrorizzante perché realizzata con macchina a mano, coi tremolii e i tempi reali di un operatore che corre, calata quindi nei veri tempi di una corsa affannata verso la salvezza.

Una riflessione a parte, che probabilmente forza fin troppo il senso del film ma appare altrettanto necessaria, merita il discorso del vedere nel futuro. In primo luogo, vedere nel futuro somiglia a sua volta al vedere cinematografico, che viene a contatto con immagini irreali, ricostruite, e soprattutto rimontate, che nulla hanno a che vedere con l’esperienza del vedere quotidiano. È la lingua del montaggio che caratterizza il cinema e che estrania il suo vedere da qualsiasi altra esperienza visiva. In secondo luogo, ma strettamente connesso a questo, non suona casuale la scelta della tematica parapsicologica. A loro volta, le visioni di Virginia sono astratte, sono un vedere illusorio; uno sguardo astratto che sfonda e costeggia l’immaginazione. Può essere passato o futuro, non importa. Di nuovo, uno sguardo che evoca lo specifico vedere cinematografico, che per sua natura si colloca in un territorio d’illusione, a-temporale e a-spaziale. Tale riflessione si estende poi anche all’altra componente precipua del cinema, ovvero la dimensione audio.
La colonna audio, come in ogni thriller ben fatto, è accurata e densa di motivi inquietanti che ben sostengono l’immagine: i passi zoppicanti che rimbombano, le agghiaccianti sferzate sonore sui dettagli più perturbanti, e quant’altro. Ma assume a sua volta tratti teorici l’uso del motivo musicale, il carillon da orologio, che dà anche il titolo al film. Nella sequenza in chiesa, tutta avvolta nel silenzio di voci, è il carillon a spezzare l’assenza di suoni, e trascolora sapientemente dalla dimensione in a quella over, trasformandosi lentamente in motivo ossessivo e abbattendo il confine tra i due spazi del suono codificati nel linguaggio filmico. Così facendo, Fulci denuncia una volta di più i codici del linguaggio-cinema, in questo caso sonoro; li usa, li valorizza e al contempo li dichiara illusori, finti, astratti. All’estremo opposto, è altrettanto saggio l’uso del silenzio. Dopo il prologo e la brutta canzone di Linda Lee sui titoli di testa, il film si distende in una sequenza silenziosa, quella della prima visione di Virginia, dove restano udibili solo i rumori di fondo. Al silenzio della sequenza si contrappongono poi i rumori inquietanti dell’allucinazione, i mattoni uno sopra l’altro, il rantolo della vittima, i passi zoppicanti. Fulci opera scelte finissime anche in tal senso; esordisce nel silenzio, si affida poi a una prima metà parlatissima, quasi manierata nell’uso insistito del dialogo e del machiavello narrativo, per poi ritornare nel silenzio delle sequenze finali. Un’ulteriore dichiarazione d’intenti, un’adesione decisa verso un’espressività minimale ed estremamente efficace.

Fatta eccezione per Gabriele Ferzetti, che pure è inspiegabilmente doppiato, il cast non brilla di primi attori. Luigi Diberti ha un ruolo secondario, la protagonista Jennifer O’Neill veniva da L’innocente, ultimo film di Luchino Visconti, ma non era certo una stella di prima grandezza, Gianni Garko alternava cinema d’autore e commerciale; in linea di massima si tratta di un cast da ricca serie B (Marc Porel, Evelyn Stewart, Jenny Tamburi…). Ciononostante, per un film di genere la direzione d’attori è dignitosa. Se da un lato Dario Argento si divertiva a invitare nei suoi film attori di teatro per farli a pezzi, sia letteralmente sia tramite una direzione d’attori puntualmente disastrosa, dall’altro Fulci mostra il grande pregio di rendere tutti funzionali e omogenei. Quel che conta in Sette note in nero è del resto il raffinatissimo sguardo di regia. Che si riflette su milioni di altri sguardi, come davanti a uno specchio frantumato (altra immagine ricorrente e fondamentale del film). Come nel miglior metacinema accade. Come quando si guarda, sperando di vedere, ma vedere non si può.

Il dvd contiene un solo contributo extra, ma molto interessante: quattro interventi-audio, corredati da immagini del film, di Dardano Sacchetti (sceneggiatore), Bruno Micheli (montatore), Massimo Lentini (costumista), e dello stesso Lucio Fulci.

Info
La scheda di Sette note in nero sul sito della CG.
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