Morte a Venezia

Morte a Venezia

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In Morte a Venezia, “traducendo” Thomas Mann, Visconti riesce nell’impresa che pare, invece, uccidere il suo protagonista, ovvero armonizzare nell’opera il vero e il bello, l’onestà intellettuale e il sentire, la riflessione ampia con la precisione dell’atto. Un capolavoro restaurato da Cineteca di Bologna e Istituto Luce-Cinecittà, con Warner Bros e The Criterion Collection, e in questa veste proiettato alla Mostra di Venezia.

Nostalgia di terre lontane

Venezia, 1911, il famoso compositore Gustav von Aschenbach giunge al Lido per un periodo di risposo in seguito a una crisi cardiaca. Qui incrocia la bellezza efebica di un giovanissimo polacco, Tadzio, che soggiorna nello stesso hotel di Gustav assieme alla famiglia. Il musicista se ne infatua immediatamente. A Venezia, intanto, è scoppiata un’epidemia di colera… [sinossi]

Mettendo per un istante da parte la densità dei riferimenti intellettuali, che dialogano dall’interno sia con la maestosa filmografia viscontiana sia con la cultura europea ottocentesca, si vuole cominciare con il sottolineare una tonalità emotiva che rende monoliticamente inscalfibile Morte a Venezia, anche a distanza di quasi mezzo secolo: la dolcezza struggente con cui Visconti ci porta negli occhi e nell’animo di Gustav von Aschenbach (l’inimitabile Dirk Bogarde), rendendo la sua morte un evento che va al di là di qualsivoglia riflessione sulla Germania, sull’arte, sulla repressione o l’impotenza. Quando, in uno dei finali più dolorosi della storia del cinema, Gustav muore, piccolo, rattrappito e tragicamente ridicolo con quel rivolo di tinta per i capelli che – al posto del sangue – gli cola sulla faccia, guardando il giovane Tadzio (Björn Andrésen) avvolto dal luccichio del sole riflesso sul mare, ogni spettatore – che per 130 minuti è stato sapientemente spinto nel sentire di Gustav – può avvertire un disagio, che è l’incrinatura del tempo da cui nessuno può sfuggire. Mettendo dunque da parte tutto il coté intellettuale – certamente utile per afferrare al meglio la grandezza di uno dei capolavori di Luchino Visconti – Morte a Venezia rimane, inattaccabile, una delle rappresentazioni più dolenti sulla caducità dell’uomo, un racconto proteso a quell’attimo scintillante in cui il tempo rivela la sua natura non umana, la sua trascendenza che sovrasta ogni vita, quella di von Aschenbach e quella di chi guarda, ponendo lo spettatore di fronte alla ferocia della difficile parzialità che chiamiamo esistenza. Anche per questo il secondo capitolo della Trilogia tedesca – il primo è La caduta degli dei, l’ultimo sarà Ludwig – è il più semplice, lineare e assoluto: nel viaggio a ritroso che il regista compie, dall’ascesa del nazismo alla nascita dell’Impero di Bismarck, il trapasso tra i due secoli assume una tonalità più esistenziale (e più proustiana e bergsoniana) concentrandosi sulla memoria come ricerca della permanenza e sul tempo come strumento insuperabile della dissoluzione. Al di là di ogni ulteriore riflessione, Visconti prende il romanzo breve di Thomas Mann del 1911 e ne realizza una versione più granitica nella concezione e più sentimentale nella texture, di fronte alla quale non servono in realtà particolari nozioni interpretative: lo struggimento del protagonista dinnanzi al desiderio inappagabile e di fronte a un oggetto, Tadzio, che sembra racchiudere tutto ciò che egli stesso ha scansato, eluso, rigettato, nel corso di una vita plasmata sulle proprie convinzioni è uno scacco emotivo da cui nessuno può dirsi immune. La vicenda di von Aschenbach diventa così una delle più suggestive messe in scena cinematografiche del limite umano di fronte alla triste abilità di comprenderlo. In questo senso Morte a Venezia è un’opera d’arte chiusa e perfetta, una rappresentazione folgorante, assoluta, di un sentire universale, più vicina nel suo esito all’effetto della musica (il che rende ancor più inappuntabile la scelta dell’Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler) o all’evocazione misteriosa di un dipinto (per esempio il simbolismo di de Chirico, visto che L’enigma dell’Oracolo, 1910, è chiaramente citato da Visconti). Ma tutto questo non basta. Così come ricorda al protagonista l’amico Alfred (Mark Burns), nei flashback dialogici ed esplicativi che punteggiano un racconto altrimenti quasi privo di battute significative, un accordo musicale di per sé non ha un senso predeterminato. Dunque il peso della rappresentazione o dell’espressione deve essere “distribuito” nella costruzione strutturale.

Morte a Venezia è un film perfettamente esplicito, indubitabile, assertivo. La prima parte del film è costruita su panoramiche e zoom, preceduti spesso da campi lunghi, e lo sguardo dello spettatore è totalmente governato da Visconti con una regia esibita che ci conduce dove lui desidera. Lo stratagemma di inserire flashback e personaggi, come quello di Alfred, assenti nel racconto di Mann, sono la conferma della volontà di far percepire in maniera più sentimentale quello che in Mann resta prevalentemente intellettuale: del resto il più rilevante cambiamento apportato dalla sceneggiatura è quello di trasformare Gustav da scrittore a musicista, fautore di un’arte che traduce l’emozione e il pensiero in un linguaggio né verbale né figurativo (sebbene Mahler sia stato proprio una delle fonti di ispirazione di Mann nel mettere a punto il personaggio di Gustav, che non casualmente porta il suo nome). Se lo spettatore conoscerà Gustav a poco a poco, cogliendone dapprima lo sgradevole senso di superiorità e poi le tante umane fragilità, è anche perché dal momento in cui la macchina da presa si avvicina a lui, ancora sull’imbarcazione che lo porta a Venezia, non ci staccheremo più dal suo sguardo e dalle sue percezioni. Le panoramiche all’interno dell’Hotel Des Bains del Lido scrutano con zoom più o meno ravvicinati un mondo a cui il protagonista non è davvero interessato. Finché non avvista Tadzio. Da quel momento Visconti costruisce la relazione tra Gustav e il bellissimo efebo polacco con soli sguardi e pedinamenti complici, poi sempre più “invasivi” e mortuari in una Venezia che, come il protagonista, è già ammalata. In mezzo a questo semplicissimo racconto amoroso emergono i ricordi di Gustav: il fallimento degli ultimi concerti a Monaco, le discussioni con Alfred (con cui ha forse una relazione omosessuale non dichiarata), i pochi momenti di gioia con la moglie, la morte della figlioletta (dato biografico che riconduce nuovamente alla vita di Mahler), la lotta perpetua con se stesso per raggiungere nell’arte una bellezza senza ambiguità. Sebbene Mann affronti esplicitamente nel testo la questione dell’ideale del “bello” in Platone, in Visconti Gustav pare trovarsi maggiormente nello stallo tra due categorie nietzschiane, l’apollineo e il dionisiaco: egli è vissuto sempre seguendo il primo principio e realizzando opere che guardano alla perfezione del classico, ma è macerato all’interno da una forza pulsionale e caotica cui solo tardivamente concederà di emergere. Per farlo avrà bisogno comunque di una motivazione razionale: non potrà andarsene da Venezia finché non gli verranno restituiti i bagagli smarriti. Gustav è però felice di restare (e la bravura di Bogarde nello scalfire con un cenno la maschera del personaggio è impressionante): non potersene andare e dunque continuare a vedere l’amato Tadzio gli procura sollievo benché la consapevolezza di rischiare la vita gli sia già evidente. Il conflitto tra ideale e pulsionale hanno reso Gustav impotente e represso, nell’abbandonarsi totalmente alla pulsione non potrà che morire. Nel turbinare dei ricordi c’è infine una prefigurazione, che resterà solo immaginata, ossia quella di poter sfiorare il volto di Tadzio, ma anche in questo caso Gustav sorregge il gesto erotico di una motivazione più che ragionevole: andrà da sua madre (Silvana Mangano) per dirle di partire con i figli poiché a Venezia è in corso un’epidemia di colera e in quel frangente potrà concedersi un’affettuosa carezza all’amato. Ma Gustav non riuscirà neppure in questo, poiché la famiglia polacca è ben edotta della cosa ed è già in partenza. Dopo essersi imbellettato e tinto i capelli per risultare più giovane e curato agli occhi del ragazzo, a Gustav non resterà invece che vederlo (o immaginarlo) un’ultima volta da una sdraio, sulla spiaggia, mentre il ragazzo gioca con un coetaneo (tra i due c’è sottotraccia una striatura di omoerotismo) e poi si affaccia sul mare, mentre Gustav muore. Annientando con sé la possibilità di ricomporre il conflitto, la giovinezza che non tornerà mai più, il tempo a sua disposizione per dispiegare quell’autenticità davvero armonica che non ha mai trovato.

Fino a questo momento lo spettatore è stato condotto, da una regia implacabile, nello sguardo interiore ed esteriore del protagonista, in un’operazione di sublimazione dell’atto attraverso lo sguardo e l’immaginazione. Così il distacco da lui, morto, risulta sconvolgente: l’ultima scena del film si conclude con una panoramica in campo lungo, lievemente dall’alto e in allontanamento, in cui vediamo Gustav portato via come un sacco dai fattorini dell’albergo. Fino a un istante prima eravamo attaccati al suo volto, al suo pensiero, all’oggetto dei suoi occhi, della sua immaginazione. La brutalità di questa scelta visiva rende la sua straziante morte un accadimento tra i tanti, inserito in un paesaggio più vasto, in cui per esempio due bambine vestite di nero si trovano sulla spiaggia a giocare, mentre il corpo di Gustav viene rimosso destando preoccupazione in dame ben abbigliate. Gli elementi e riferimenti pittorici rivestono una centralità che di certo non sorprende e non mancano ulteriori ragioni stilistiche per rendere il film di Visconti un’opera di rara fattura. Ma la nettezza della regia qui, più che altrove, usa strumenti ottici per spingerci tra le braccia di un uomo e i suoi demoni. Che diventano facilmente, abilmente, i nostri.
Eppure Gustav von Aschenbach non è solo un uomo e sarebbe addirittura riduttivo (incredibilmente) non considerare che Morte a Venezia vive all’interno della trilogia dedicata alla Germania e che anche in questo contesto, perciò, si deve leggere. Una trilogia mortifera, in cui il principe Ludovico II di Baviera così come la famiglia von Essenbeck vengono fagocitati e distrutti perché riflettono il mondo attraverso un antico immaginario germanico di rappresentazione e potere, quando non addirittura attraverso la mitologia medievale come nel caso del principe che foraggiò Wagner. Ne La caduta degli dei e in Ludwig i personaggi sono per questo già storicamente morti (come il loro Paese) e già morto dall’inizio è ovviamente ed esplicitamente anche Gustav von Aschenbach. Ma tra le peculiarità – su tutte l’essenzialità – che distinguono molto Morte a Venezia rispetto alle altre due opere c’è quella di non essere ambientato in Germania. Ma in Italia, un Paese giovane visto che l’azione si svolge nel 1911. Venezia non è una città giovane ed è un buon ritiro per l’alta borghesia e la nobiltà prussiana ed europea, ma differenti e pulsionali sono gli italiani con cui von Aschenbach non ha alcun feeling. La prima battuta dell’intero film è affidata a una vecchia checca truccata e imbellettata, che si rivolge a Gustav sul traghetto deridendolo: il primo che profferisce verbo è un palese omosessuale che motteggia colui che riconosce come simile, ma ben più derelitto perché represso e forse persino inconsapevole di sé. Gustav ovviamente ne è disgustato. Arrogante e ancora convinto di poter dominare, in virtù della sua presunta superiorità morale, Gustav si scontra subito dopo con un gondoliere che lo vuole portare al Lido e si rivelerà un “abusivo”, ossia senza licenza. Solo al Des Bains, in mezzo a un parterre internazionale, Gustav si sentirà vagamente meglio: i camerieri e i fattorini sono avvezzi ad aver a che fare con gente del suo livello e non lo vogliono né sbeffeggiare né fregare. Anzi sono lì per servirlo (Romolo Valli, che recita il direttore dell’albergo, è eccellente nel tratteggiare un personaggio compresso e pressoché rassegnato nel dover trattare con tanta, inutile, nobiltà). Più indisponenti, nel non capire le superiori esigenze di un agiato artista, gli risulteranno altri personaggi secondari, come il bigliettaio della stazione reo di fargli perdere tempo o il fattorino che smarrirà i suoi bagagli: in un contesto storico in cui parte della nostra nazione era ancora asburgica e la Prussia aveva contribuito non poco militarmente alla nascita del Regno d’Italia (e alla Pace di Vienna), serpeggia chiaramente un atteggiamento di predominio da parte dell’ospite rispetto agli autoctoni italiani. Che attingono inoltre a una cultura popolare, sono sempliciotti, saltimbanchi da quattro soldi e truffaldini d’indole. In una delle scene, in questa accezione, più interessanti del film, un’orchestrina di cantori napoletani, variopinti e ancora una volta truccati, si esibisce sul terrazzo del Des Bains: per von Aschenbach sono orrendamente molesti sia per i suoni volgari che emettono sia perché turbano il suo sguardo rivolto a Tadzio. Sguaiati e mascherati, come il vecchio omosessuale dell’incipit, a loro si rivolge comunque il protagonista per carpire informazioni sul colera a Venezia, sperando forse nella sua autorevolezza di fronte a tali grossolani esseri: furbescamente loro negheranno poiché Venezia, come verrà detto da lì a poco, è una città che vive solo di turismo… Molti dei personaggi italiani messi in scena sono truccati, ma nessuno di loro porta una maschera pesante quanto quella di Gustav. Che, nel momento di massima debolezza amorosa, finirà proprio per essere truccato, solleticato nella propria vanità da un barbiere veneziano che gli mette cerone e una punta di rossetto: un cedimento che rivela anche esteriormente l’ormai definitiva vulnerabilità della maschera interiore e non promette niente di positivo. La rappresentazione dell’italiano da commedia dell’arte, furbetto e malandrino, non è tanto in opposizione positiva con l’austerità germanica del nostro (che si innamora infatti di un ragazzino polacco, di un suo “simile”, di un suo pari più giovane, incarnazione di una bellezza per Gustav decodificabile ed eterea), ma di sicuro è ferocemente oppositiva. Venezia stessa è una città antica, mortuaria e monumentale, ma ha i turisti, è la città del Carnevale e ha il porto: dalle navi arriva anche la malattia. In questo crogiolo italiano, magari devastato e purulento ma ineluttabilmente vivo, lo stallo del protagonista, ispirato dalla censura sessuale in nome di alti ideali etici ed estetici, assume una sfumatura ancor più angosciosa perché – a differenza delle ossessioni di Ludwig o della famelica stolidità della famiglia di industriali ne La caduta degli dei – è tragicamente fuori contesto. Mentre in Senso il tenente austriaco Mahler sopraffà, fin dall’incontro al Teatro La Fenice a Venezia, la splendida Livia/Alida Valli calpesta e derisa, l’Italia cinquanta anni dopo è un Paese popolarmente votato al disincanto, in cui i vagheggiamenti di von Aschenbach non possono che trovare l’esito estremo. C’è un accenno, in questo articolato percorso, che fa intravvedere quella Prima guerra mondiale in cui l’Italia sarà contrapposta proprio agli Imperi Centrali. Di certo quella antica “nobiltà”, dell’animo o del lignaggio, sta per tramontare sul continente europeo, travolto dal sangue che von Aschenbach non esibisce neppure quando muore.

La stratificazione intellettuale di un film tanto semplice ed efficace nelle sue coordinate più intime, umane ed esistenziali, non fa che conferirgli ulteriore interesse, ma – come per gli autentici capolavori – non è realmente fondamentale in prima battuta per commuovere, colpire l’emotività, vivificare l’immaginazione. Visconti riesce nell’impresa che pare, invece, uccidere il suo protagonista, ovvero armonizzare nell’opera il vero e il bello, l’onestà intellettuale e il sentire, la riflessione ampia con la precisione dell’atto. Non che stupisca. Apollineo e dionisiaco si compenetrano al fine in una visione tragica e vigorosamente viva. La trasposizione del racconto di Mann è così una traduzione che tiene conto dei movimenti principali del testo ma li traduce in una lingua che non solo è differente per statuto, ma lo è per stile e motivazione e pare innanzitutto passare dalla terza persona del libro alla prima nel film. L’abbondante utilizzo della Quinta Sinfonia di Mahler nei momenti che devono muovere lo spettatore a una maggior adesione con Gustav è contrappuntata infine anche da altri brani ma non è un caso che per ben due volte, in ben due scene che hanno a che fare con l’apertura all’eros, sia richiamata la semplicità armoniosa e bella di Per Elisa di Beethoven. Il compositore tedesco più di ogni altro simbolo dell’epoca classica, perduta come la giovinezza di una nazione o persino di un semplice uomo.

Info
Il trailer di Morte a Venezia.
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