The Horsemen

The Horsemen

di

The Horsemen di Jonas Åkerlund è un thriller senza spunti, diretto con poca inventiva e recitato in modo svogliato.

Il cavaliere bianco

Il detective Aidan Breslin si sta occupando delle indagini su un pericoloso e misterioso serial killer che sta terrorizzando New York. Poiché il killer firma i luoghi dei propri omicidi con la scritta “come and see”, citazione dell’Apocalisse, Breslin arriva alla deduzione che costui, per uccidere, si ispiri alla leggenda dei 4 Cavalieri dell’Apocalisse. Con l’intento di anticipare le mosse dell’assassino, il detective troverà un legame tra le vittime che con suo estremo stupore coinvolgeranno proprio lui… [sinossi]

Jonas Åkerlund è un apprezzato (e prezzolato) regista di videoclip: Madonna, Prodigy, Moby, Smashing Pumpkins, Metallica, U2, molte delle reginette del pop e del rock si sono rivolte nel corso degli anni a questo quarantaduenne di Bromma, Svezia. Al di là dei suoi concreti meriti artistici nel campo dei video musicali Åkerlund aveva, fino a oggi, posto la firma in calce a un solo lungometraggio cinematografico, l’imperfetto ma non disprezzabile Spun (2002), in cui interagiva con un cast artistico di tutto rispetto composto da Jason Schwartzman, Mickey Rourke, John Leguizamo, Mena Suvari e Patrick Fugit. Proprio Fugit rappresenta l’ideale anello di congiunzione tra Spun e The Horsemen: anche perché, passati sette anni, il povero Åkerlund sembra essere caduto in un gorgo infernale, dal quale è francamente arduo intravedere un’uscita.

Partiamo da un presupposto: The Horsemen avrebbe potuto essere un ottimo thriller, sanguinolento al punto giusto – e, sotto questo punto di vista, anche più audace di altri progetti a lui coevi – e carico di un’aura malsana, malata e deviante. Una volta appurato che il risultato finale non si avvicina neanche lontanamente alle speranze sopracitate, è doveroso cercare di capire dove si inceppi l’ingranaggio. La verità è che The Horsemen è un film scritto spudoratamente male; la tensione narrativa viene fin dalle prime battute, una volta superato l’incipit d’impatto e l’ingresso in scena di Dennis Quaid – encomiabile la sua interpretazione, tesa a uno sforzo continuo nella spasmodica ricerca di un senso che la pellicola, purtroppo, non può concedere neanche al suo personaggio; deplorevole, al contrario, una scipita Zhang Ziyi –, abbandonata alle ortiche, a favore di una progressione lineare e fin troppo prevedibile. David Callaham, al quale dobbiamo la sceneggiatura del film, sembra non essersi reso conto di una falla gigantesca che affonda qualsiasi spunto interessante: come ci erudisce anche lo slogan di lancio scelto per il film, abbiamo a che fare con “4 serial killer”. Fin qui tutto bene; l’affare si complica nel momento in cui Callaham non si prende la briga di disegnare un numero di personaggi che superi i magnifici quattro. Insomma, se l’intera struttura del thriller si deve reggere sull’investigazione tesa a svelare l’identità degli assassini, non è il massimo della vita avere a che fare con un novero di volti pari e non superiori a quelli che stiamo ricercando. Tanto più che i “cattivi” appaiono evidenti fin dalla prima volta che vengono messi in scena, e ci si stupisce di quanto tempi impieghi il pur solerte Quaid a trovare la strada giusta verso la soluzione del caso – anche se questo “ritardo” consente ad Åkerlund di costruire la sequenza migliore, quella della confessione a sorpresa con tanto di feto in bustina. Evitiamo a tal proposito volentieri di girare il coltello nella piaga andando a segnalare le libertà prese in fase di sceneggiatura da quell’aspetto dello sviluppo narrativo che solitamente passa sotto il nome di “verosimiglianza”: non riteniamo che siano gli eccessi, i corto-circuiti sinottici e via discorrendo ad affossare il film, per quanto non possano sperare di concorrere per chissà quale encomio.

Un vero e proprio peccato, perché da un punto di vista tecnico The Horsemen si difende decisamente bene: la fotografia è scintillante, con un utilizzo del bianco – l’intero film è girato in un panorama, urbano ed extra-urbano, ghiacciato – tutt’altro che banale e una cura per il dettaglio che avrebbe meritato maggior fortuna. La stessa regia di Åkerlund, dopotutto, risulta essere una delle note più liete di questa produzione che, con nostro sommo sbigottimento, sta ottenendo favori critici a destra e a manca. Non riusciamo a capire come un’operazione così involuta da un punto di vista narrativo – e per un film che si regge completamente sull’evolversi della storia non è proprio un complimento – e retorica nell’afflato poetico possa trovare estimatori così entusiasti.
Chissà, probabilmente il mondo è bello perché è vario…

  • the-horsemen-2008-03.jpg
  • the-horsemen-2008-02.jpg
  • the-horsemen-2008-01.jpg

Articoli correlati

Array