Mammoth

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Incoerente e confuso, eppure destabilizzante, Mammoth di Lukas Moodysson delude anche se punta l’indice contro l’ingenuità malsana e complice dell’occidente agiato. Ed è un vero peccato perché sulla carta il progetto aveva tutti gli attributi giusti.

I bambini ci guardano

Leo (Gael Garcia Bernal) e Ellen (Michelle Williams) sono una facoltosa coppia newyorkese. Leo è il brillante autore di videogames on line, mentre Ellen è medico in un pronto soccorso. La loro bambina, Jakie (Sophie Nyweide), trascurata dai genitori per via dei rispettivi lavori, trascorre la maggior parte del tempo con la tata filippina Gloria (Marife Necesito), che le dedica mille attenzioni nella speranza di attutire la nostalgia che prova per i suoi due bambini, lasciati in patria alle cure della nonna. Tutto è destinato a cambiare (per restare forse uguale) quando Leo intraprende un viaggio alla volta delle Tailandia, dove firmerà un contratto a sei cifre e affronterà le mille contraddizioni – e imprevedibili crudeltà della propria cultura di appartenenza… [sinossi]

Primo film in lingua inglese per il paladino del cinema indie nord europeo Lukas Moodysson, Mammoth, presentato al Festival di Berlino 2009, dove ha raccolto sonori fischi di disapprovazione, è una pellicola che manifesta un proclamato impegno etico, ma scivola senza appigli in momenti di solenne e incauto moralismo. Moodysson, che altrove ha dimostrato di saper trattare temi difficili con una grazia inusuale e spiazzante (l’omosessualità femminile in Fucking Åmål, l’amore libero in Together, la prostituzione minorile in Lilja 4-ever), di fronte alla spinosa questione dei maltrattamenti infantili, disperde la forza delle proprie idee in tracciati narrativi eterogenei, che finiscono per approdare a esiti incoerenti, quando non risibili.

A colpire e convincere è soprattutto l’ambiguità dello sguardo che il regista scandinavo lascia galleggiare sulla patinata rappresentazione della quotidianità dei suoi protagonisti statunitensi, l’uno (Bernal) Peter Pan per professione, rivela gradualmente delle sordide contraddizioni latenti, pronte ad emergere alla superficie una volta lontano dal suo habitat naturale. La sua naiveté è il suo peccato originale, che lo condurrà dapprima a voler salvare una giovanissima prostituta tailandese dal turismo sessuale dei laidi signori occidentali, ma che lo spingerà infine ad attuare lui stesso una forma di inconsapevole e crudele colonialismo. Mentre d’altro canto, l’eterea e silenziosa Ellen (Williams), seppur commossa di fronte ad un pargolo accoltellato in famiglia e sottoposto alle sue cure in ospedale, dimostra presto di tollerare ben poco il rapporto che lega la figlioletta alla nanny filippina Gloria, che finisce pertanto vittima degli ingiusti rimproveri della padrona di casa.

Nonostante la volontà da parte del regista di spingerci all’identificazione con la coppia malsana newyorkese, è in realtà l’episodio filippino a catturare la nostra empatia, probabilmente grazie a veicolo efficace del personaggio di Gloria, madre di due bambini espatriata nella speranza di poter offrire, con i frutti del suo lavoro, un futuro migliore ai pargoli. Gloria, infatti, a differenza di Leo e Ellen, è a tutti gli effetti un personaggio positivo, la sua unica colpa è l’aver lasciato i figli alle cure della nonna. Ma il prezzo che dovrà pagare per questa sua scelta certo non facile, sarà molto alto, al punto che viene da chiedersi se il regista non abbia intenzione di condannare anche l’emigrazione in quanto forma, seppur dettata da forti motivazioni, di abbandono della prole.

Moodysson è dunque alquanto altalenante, pare esitare di fronte ad una condanna senza appello dei propri protagonisti occidentali, ma non manca di puntare l’indice contro il globale sfruttamento dei minori, di cui i due finiscono per essere conniventi. In fin dei conti è proprio l’intento globalizzante di Mammoth (una sorta di impulso che lo spinge verso concetti universali) ad allontanare il regista da quell’attenzione per i dettagli che altrove è stata la forza della sua poetica e a sospingerlo, invece, verso una morale ovvia e irritante.
Che maltrattare i bambini sia la più oscena delle abiezioni, è infatti una certezza che lo spettatore comune non mette certo in dubbio, e pertanto ogni affondo contro l’infanzia trascurata, ha il sentore di una predica superficiale quanto superflua. Rallenty e ammiccanti musiche indie-rock non fanno poi che incrementare la sensazione ci assistere a brani sparsi di edificanti pubblicità progresso. Ed è un vero peccato perché sulla carta il progetto aveva tutti gli attributi giusti (cast in primis) per risultare vincente, ma evidentemente il contrasto tra le forti istanze di denuncia, le immagini (nonché le musiche) seducenti e il meccanismo narrativo parallelo, ha generato un ibrido difficile da digerire.

Info
Il trailer di Mammoth.

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