Hanezu

Hanezu

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Hanezu, il film che Naomi Kawase portò in concorso al Festival di Cannes nel 2011. Forse la sua opera più personale e irrisolta.

Le radici del Giappone

Regione di Asuka, culla del Giappone. Gli abitanti un tempo nutrivano le proprie esistenze con il semplice passaggio del tempo, ma oggi la gente non ha più tutta quella pazienza. Ai giorni nostri, Takumi e Kayoko trascinano le proprie esistenze nel tentativo di prolungare le speranze e i sogni irrealizzati dei loro nonni… [sinossi]

Non sono in molti a saperlo, ma secondo gli studi più recenti e approfonditi le radici storiche del Giappone si perderebbero ad Asuka, nella prefettura di Nara. Qui nei tempi antichi le popolazioni pensavano che tre piccole montagne nelle vicinanze (Unebi, Miminashi e Kagu) custodissero al loro interno la dimora degli dei. I monti Kagu e Unebi erano innamorati, ma Miminashi si frapponeva tra loro, impedendo di riunirsi. Tra le molte suggestioni lasciate dall’ultimo film di Naomi Kawase, presentato un po’ a sorpresa all’interno del concorso ufficiale del Festival di Cannes – si è saputo della sua esistenza in pratica solo a ridosso della conferenza stampa del festival – questo ritorno a miti ancestrali perduti nella memoria dei giapponesi contemporanei è forse quella che riesce a colpire con maggior forza l’immaginario collettivo. Non v’è dubbio che la cineasta nipponica, giunta oramai al sesto lungometraggio di finzione diretto in quattordici anni (a questi vanno aggiunti tre documentari lunghi), abbia orchestrato qui la sua opera più ambiziosa: il tentativo è infatti quello di ricostruire la memoria storica di un’intera nazione, andando a svelare (per quanto possibile) i misteri della regione di Asuka, dove gli archeologi stanno lavorando in maniera incessante per cercare di dare corpo e senso ai detriti del passato che emergono dal sottosuolo.
Non è certo un caso che Hanezu (il titolo originale è Hanezu no Tsuki) si apra sulle immagine dei macchinari che trasportano via il terriccio scavato per recuperare i reperti che giacciono sepolti da millenni. In effetti l’intero film appare animato da una tensione continua verso lo svelamento: è così per la scoperta da parte dei due uomini della gravidanza di Kayoko; è così anche per i ricordi dell’infanzia che i nonni di Takumi rispolverano estraendoli dagli album fotografici di famiglia; è così, infine, anche per la vita che (ri)nasce in casa di Takumi, sotto forma di un nido di rondini. Per non parlare, ovviamente, dei fantasmi del tempo che fu (uno su tutti, il soldato partito per la Seconda Guerra Mondiale) che passeggiano a fianco degli uomini e delle donne di oggi, come se tutto rientrasse in un grande disegno cosmogonico, placido e armonico. Assai meno armonioso, invece, è lo strano e psicologicamente complesso ménage à trois che lega Takumi, Kayoko e Tetsuya, fin troppo palese e didascalica versione materiale e carnale di Unebi, Miminashi e Kagu. Kayoko rimane incinta, e in un universo che non riesce più ad avere punti di contatto con le generazioni che l’hanno preceduto, questo evento ha un effetto deflagrante che non potrà non condurre a soluzioni estreme e dalle quali non è possibile tornare indietro.  Hanezu ospita al proprio interno l’intero corpus autoriale della Kawase, presentando al pubblico i topos essenziali del cinema della cineasta giapponese: l’area geografica di Nara, di cui è lei stessa nativa, la mancanza delle figure dei genitori – anche qui ci si riferisce quasi esclusivamente ai nonni –, il gap generazionale, lo sguardo attento e dettagliato sulla natura, la memoria dei miti ancestrali, il rapporto tra essere umano e panorama circostante, e via discorrendo. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, per quanto la Kawase cerchi di costruire un impianto narrativo dal forte sapore metaforico che indebolisce almeno in parte il potere autobiografico del suo cinema.

Ed è forse proprio questo a mancare a Hanezu: spinta da ambizioni fin troppo alte, la Kawase finisce per smarrire l’essenza primigenia del suo approccio all’arte, finora rintracciabile sia nei lavori di finzione che ancor più nei documentari lunghi e corti che si sono succeduti nel corso degli anni. Perché la regista di Suzaku (1996), Mourning Forest (2007) e Nanayo (2008) – per citare tre dei suoi film più riusciti – ha sempre avuto la forza e il coraggio di mettersi in gioco in prima persona all’interno delle sue creature, inserendo materiale autobiografico in grado di sorprendere e scioccare.  Qui, indecisa tra la storia d’amore e la riscoperta di ciò che fu il Giappone e che oggi non è più, il tutto si fa più instabile: affascinante, a tratti irresistibile, ma irrimediabilmente instabile.

Info
Il trailer di Hanezu.
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