El campo

El campo

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Ennesima variazione sulla crisi della coppia, ma in grado di adottare una prospettiva di rilievo nella miriade di proposte sul tema, sempre più frequentato. Presentato alla Settimana della Critica di Venezia 2011, El campo si distingue per la capacità di venarsi di inquietudini, di giocare sulle sospensioni, di porre domande senza necessariamente dare (tutte) le risposte.

Via dalla città

La casa in campagna appena acquistata da due giovani coniugi, Santiago ed Elisa, con una bambina piccola, si trasforma ben presto in un luogo inquietante. Non soltanto lo spazio domestico, ma anche l’ambiente rurale, il vuoto circostante e la gente del circondario mettono sempre più a disagio Elisa, perennemente allarmata da ogni rumore notturno, ogni visita inaspettata, ogni circostanza che la trova impreparata. Anche i rapporti affettivi e sessuali tra Santiago ed Elisa subiscono il contraccolpo di questa nuova situazione. Tutto ciò sta progressivamente destabilizzando non soltanto l’equilibrio della coppia, ma anche quello psichico della donna, allarmata tra l’altro per l’incolumità della bambina dentro una cornice di eventi, persone, animali, luoghi, improvvisi sbalzi d’umore… [sinossi – www.sicvenezia.it]

Il cinema argentino ci ha ormai abituato a opere prime che si distinguono per originalità e forza espressiva. Lo fa da oltre un decennio (almeno) e quindi non ci sorprende più verificare periodicamente la vitalità di una cinematografia che continua ad alimentarsi di nuovi sguardi sul mondo in grado di restituirne la complessità (per chi cercasse conferme, vada a recuperare il fresco vincitore dell’ultima Semaine de la critique di Cannes, il bel Las acacias di Pablo Giorgelli). Dunque non ci meraviglia la maturità dell’esordio di Hernán Belón, El campo, ennesima variazione sulla crisi della coppia, ma in grado di adottare una prospettiva di rilievo nella miriade di proposte sul tema, sempre più frequentato. Uno sguardo che si distingue per la capacità di venarsi di inquietudini, di giocare sulle sospensioni, di porre domande senza necessariamente dare (tutte) le risposte.

La vicenda di Santiago ed Elisa sembrerebbe fin troppo semplice da raccontare nella sua evidente linearità e fin troppo facile da smascherare nella sua apparente schematicità. Ciò nonostante il gioco delle attese tessuto da Belón innesta nel film un sottile disagio costruito con un sapiente uso degli stereotipi di genere (la casa fredda e inaccogliente; l’anziana vicina di nome Odelsia che istintivamente viene avvertita da Elisa come un pericolo) e che restituisce perfettamente il senso di angoscia esistenziale vissuto dalla coppia. Un disagio che diventa sempre più pervasivo perché il plot manca dell’evento in grado di farlo esplodere. Una vicenda dunque a cui viene sottratto il classico colpo di scena o turning-point drammaturgico che, orientando la pulsione dello spettatore verso un qualcosa/qualcuno capace di attrarre su di sé tutte (o quasi) le attese disseminate precedentemente, dovrebbe mutare il disagio in qualcos’altro. Forse è proprio questa deliberata assenza che può diventare una delle chiavi di lettura con cui interpretare El campo. Quello della coppia infatti si rivela come un progetto impossibile. Un vero e proprio progetto di vita, come Santiago ricorda alla moglie quando lei gli dice di volersene tornare in città («Yo tengo un projecto»), che però sembra non essere condiviso. E che dunque manca dell’aspetto primario di una costruzione relazionale, la condivisione appunto. Per questo è inevitabilmente destinato alla sconfitta. Che diventa evidente con le lacrime finali di Santiago, durante il tragitto che li riporta a Buenos Aires, e che può assumere diverse connotazioni: relazionali (la sconfitta di una coppia), generazionali (la sconfitta della coppia in questa determinata società), addirittura politiche (la sconfitta di un progetto di vita alternativo, costruito sulla disurbanizzazione e sul ritorno alla civiltà contadina).

L’altro elemento che può essere utile alla decifrazione del senso è il modo con cui Belón utilizza le soggettive. Nella prima parte del film è infatti soprattutto il punto di vista di Elisa a essere privilegiato. Non a caso la sua inquietudine e la sua insicurezza sono tradotte con alcune soggettive. Ne citiamo due in particolare: la prima è quella con cui Elisa vede (e noi con lei) per la prima volta Odelsia, percepita come una figura disturbante; la seconda è quando Elisa decide di affrontare il toro meccanico durante la serata trascorsa dalla coppia in una festa e che restituisce perfettamente tutta la sua instabilità. Nella seconda parte invece il punto di vista privilegiato diventa quello di Santiago e il passaggio da un punto di vista all’altro coincide con l’incontro con la Morte. Durante una battuta di caccia notturna alla quale è stato invitato dal vicino, l’uomo avvista e uccide una lepre incinta. E le due chiare soggettive (quella dell’avvistamento dell’animale cui segue lo sparo mortale e quella dello sventramento dello stesso) ne traducono tutto lo spaesamento e il senso d’inadeguatezza che ne deriva, l’incapacità di com-prendere la morte. Una distanza e un’incapacità di comprensione testimoniate dalla sequenza in cui Elisa si reca a visitare il corpo senza vita di Odelsa. Sequenza in cui, non a caso, il cadavere dell’anziana contadina è mostrato senza che il punto di vista della mdp sposi quello della giovane protagonista.
Forse l’unica soluzione agli sguardi instabili e ormai sperduti dei due protagonisti è contenuta nelle ultime parole pronunciate dalla loro anziana vicina di casa: Hay que vivir!

Info
Il trailer di El campo.

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