Far East 2012 – Bilancio
Far East 2012, quattordicesima edizione del festival udinese dedicato alla produzione popolare dell’estremo oriente e del sud-est asiatico, conferma il proprio ruolo di primaria importanza all’interno dello scacchiere festivaliero internazionale, nonostante l’evidente miopia di una parte della politica locale e nazionale
Al termine delle nove giornate che hanno visto pulsare il cuore di Udine con bagliori orientali, come sempre quando la città apre le sue porte al Far East Film Festival, ciò che rimane in bocca è un malcelato senso di sconcerto. Non che questo sentimento abbia nulla a che vedere con l’articolato svolgersi degli eventi legati al cinema dell’Estremo Oriente e del sud-est asiatico: la “colpa” dell’inadeguatezza con la quale siamo costretti a guardare la kermesse friulana non è in nessun modo ascrivibile ai direttori artistici, al Centro Espressioni Cinematografiche (culla del festival e sua bambagia naturale) o ai volontari che si sono dannati l’anima per rendere il Teatro Nuovo Giovanni da Udine epicentro degli interessi cinefili italiani e internazionali a ridosso della fine di aprile.
Ciò che rende sgomenti, ottusamente incapaci di qualsiasi comprensione, è che ancora oggi, a quattordici anni dalla prima edizione del Far East (e a quindici dal “numero zero” rappresentato dall’Hong Kong Film Festival), ci sia qualcuno in grado di mettere in discussione non solo la qualità del lavoro svolto da Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, ma anche e soprattutto il senso stesso dello stare al mondo del festival. Secondo quale logica un evento che da tre lustri trasforma una piccola regione come il Friuli Venezia-Giulia e una cittadina come Udine in una delle capitali della Settima Arte, trascinando con sé centinaia di accreditati, merita di essere attaccato? E chi può permettersi di dubitare sull’essenzialità della sua continuazione? E non si sta qui affrontando il solito discorso sull’esigenza di una politica culturale seria, che sappia tornare a svolgere il proprio compito senza sottomettersi alle miserabili pretese di questo o di quel gruppo di potere: la verità, e sarebbe ora che chi si è rifiutato fino a questo momento di vedere abbia la decenza di aprire gli occhi, è che eventi come il Far East non fanno solo la gioia degli appassionati del cinema popolare proveniente da Giappone, Corea, Cina, Thailandia e via discorrendo, ma permettono di smuovere in maniera sensibile l’economia della città e della regione. Chi si nasconde dietro assiomi patetici e datati quali “di cultura non si vive” dovrebbe avere il coraggio (o, per meglio dire la sfrontatezza) di ripeterli ai commercianti che durante le giornate del festival vedono i loro negozi riempirsi del popolo degli accreditati… Ma tant’è, si tratta di una storia vecchia, che tornerà a riproporsi puntualmente anche l’anno prossimo: purtroppo la crisi di valori in cui è sprofondata l’Italia, dominata da un pressapochismo eterno, animata da una pratica del raggiro e della menzogna che sembra non essersi più posta limiti, arriva a mettere a rischio una volta di più una delle realtà festivaliere più sane in giro per la penisola.
Eppure la quattordicesima edizione del Far East ha parlato un linguaggio chiaro e inequivocabile: la sala è stata spesso e volentieri stracolma – al punto che lo spassoso Thermae Romae di Hideki Takeuchi, in anteprima mondiale, è stato replicato due volte per permettere al pubblico di non perderlo – e l’ambiente del teatro è stato vissuto, quasi consunto dalla marea umana che ogni giorno vi transitava anche solo per adocchiare un gadget da regalare o per acquistare dvd e libri. Segnali di una realtà viva, che è entrata definitivamente nell’adolescenza abbandonando una volta per tutte l’infanzia. Non che il FEFF abbia mai pagato il prezzo dell’inesperienza, ma l’impressione è che la sua evoluzione sia in continuo cambiamento: questo 2012, tanto per dirne una, si è segnalato per un evidente scarto in allontanamento dalle zone più prossime al genere duro e puro. Se un tempo i film di mezzanotte si segnalavano sempre e comunque per la loro natura da “exploitation”, e il festival si permetteva anche il lusso di edificare l’horror day, l’impressione è quella di un progressivo smussamento degli angoli più estremi a favore di approcci popolari quali la commedia e il dramma. Una scelta dettata in parte senza dubbio anche dal caso e dalle contingenze dell’anno, ma non è da escludere che selezionatori e consulenti abbiano deciso di spostare seppur di poco l’asse attorno al quale ruota l’intero evento. In attesa di essere prontamente smentiti nel 2013, l’auspicio è quello di un punto di incontro tra la selezione di questa edizione e le falangi più estreme che fecero nel corso degli anni la fortuna del festival. Perché, seppur in un panorama leggermente meno vario del solito, le opere scelte per rappresentare l’oriente nel corso della quattordicesima edizione hanno lasciato il segno in profondità.
La parte del leone l’ha recitata come (quasi) sempre il Giappone: da Tokyo e dintorni sono arrivati tra gli altri (oltre al già citato peplum in odore di fantastico diretto da Takeuchi), l’ottimo e intimista The Woodsman and the Rain di Shuichi Okita, la divertente commedia culinaria/carceraria Sukiyaki di Tetsu Maeda, gli schizofrenici e imperdibili Afro Tanaka di Daigo Matsui e Mitsuko Delivers di Yuya Ishii, il violento dramma Hard Romanticker di Gu Su-yeon, l’ailurofiliaca commedia Rent-a-Cat di Naoko Ogigami e la sofferta riflessione sulla tragedia dell’11 marzo 2011 racchiusa in River di Ryuichi Hiroki. Se Hong Kong nel complesso non ha sfoggiato la sua mise più seducente, con autori quali Johnnie To e Dante Lam a recitare un ruolo minore, il FEFF ha registrato la definitiva rinascita di Pang Ho-cheung, che ha presentato la bellezza di tre film, a loro modo tutti indimenticabili, a partire dall’eccellente rom-com Love in a Puff. Se la Cina si conferma il bacino meno strettamente “popolare” del festival, come dimostra il toccante Song of Silence di Chen Zhuo, dalla Corea del Sud (alla quale era dedicata anche l’interessante retrospettiva incentrata sui film del periodo della dittatura militare) sono arrivati tre esempi di ottima scrittura e di solidissima realizzazione: il thriller di ambiente giornalistico Moby Dick di Park In-jae, il dramma “proletario” e socialista Punch di Lee Han e soprattutto l’emozionante war-movie sulla guerra civile The Front Line di Jang Hun. Per quanto riguarda le altre cinematografie, ovviamente schiacciate da un punto di vista numerico dai colossi già citati, dispiace la scarsa presenza della sempre apprezzabile produzione thailandese – qui ridotta a un singolo film, il pur interessante dramma transgender It Gets Better di Tanwarin Sukkhapisit – e sorprende la vitalità delle Filippine, che piazzano due titoli di assoluto valore, il metalinguistico The Woman in the Septik Tank di Marlon Rivera (vero e proprio colpo di fulmine del festival) e il commovente, divertente e spiazzante documentario Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay di Antoinette H. Jadaone, incentrato sulla figura della comparsa (o giù di lì) più amata di Manila.
Tutto questo senza citare i sempre stimolanti incontri con le opere malesi o indonesiane, senza ricordare i panel con gli ospiti giunti a Udine dall’altra parte del mondo, senza soffermarsi sulle serate evento organizzate nel cuore della città, senza puntualizzare la solita, vitale aria che si respira ininterrottamente per nove giorni, ogni anno da quattordici anni. E allora viene naturale porsi dietro la barricata insieme agli organizzatori del festival, a resistere strenuamente, perché ci sarà sempre bisogno in Italia del Far East. Sempre.
Appare doveroso chiudere questo bilancio ricordando il vuoto che ha accompagnato l’intera edizione, la prima senza Francesco Novello: una persona che mancherà sempre tanto, al festival e a tutti noi.