In viaggio sul G.R.A.
La conferenza stampa di Gianfranco Rosi sulle rive del Tevere, a pochi passi dal sacro GRA.
Vieni con me, amore,
sul Grande Raccordo Anulare
che circonda la Capitale
e nelle soste faremo l’amore.
E se nasce una bambina, poi,
la chiameremo Roma!
Corrado Guzzanti nei panni di Antonello Venditti
Guardi il Grande Raccordo Anulare dall’alto, magari utilizzando Google Maps, e vedi un cerchio imperfetto ma compatto, privo di crepe: un anello che circonda la città di Roma, preservandola e ingabbiandola allo stesso tempo, ma senza essere in grado di rinchiuderne l’espansione. Da quando è sorto il GRA, negli anni della ricostruzione post-bellica e del boom economico, la Città Eterna si è infatti allargata a dismisura, radicandosi in aree e quartieri come Casal Lumbroso, La Giustiniana, San Vittorino, Tor San Giovanni, Vallerano e via discorrendo.
Eppure il GRA, monumento grigiastro agli infiniti problemi di urbanistica e di traffico privato da cui è afflitta Roma, è soprattutto un non-luogo di entrata e uscita dall’Urbe, porta in continuo movimento immoto, chiave d’accesso al cuore della Capitale. Capita così che dalla Via del Mare, che si stacca dall’EUR e dall’Ostiense puntando a sud-ovest in direzione di Ostia, ci si imbatta (una volta raggiunto il ponte di Mezzocammino) in un cancello aperto. L’indicazione è quella di un ristorante, Anaconda, parte integrante della Riserva Naturale Statale del Litorale Romano. Il locale non è però immerso nel verde – con cavalcavia in bella vista – ma si articola all’interno di un barcone ormeggiato: ovviamente l’anaconda non è tra i piatti previsti dal menù…
Questo pittoresco ristorante sarebbe senza dubbio alcuno rimasto al di fuori delle cronache cinematografiche se non fosse che Cesare, il proprietario, è il “pescatore di anguille” di Sacro GRA, il nuovo film di Gianfranco Rosi che ha trionfato all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ed è attualmente reperibile nelle sale della penisola grazie alla distribuzione di Officine Ubu. Si è dunque pensato di organizzare la conferenza stampa di lancio del film proprio in quel dell’Anaconda, prima offrendo alla stampa accorsa un buffet a base di panini, salumi e formaggi, e quindi permettendo a Rosi, al cast – quasi al completo – e ad altre figure chiave della produzione del documentario di confrontarsi con il classico schema di domanda e risposta.
Il viaggio – con i convitati disposti in due pullman, eccezion fatta per la carovana di automobili private che ha deciso di muoversi autonomamente seguendo i torpedoni – ha assunto ben presto i connotati della gita scolastica, tra chiacchiere futili destinate a disquisire del più e del meno, giornalisti che ci tenevano così fortemente a rendere nota la propria impressione sul film da alzare in modo studiato la voce, e l’ufficio stampa concentrato per cercare di capire se qualche accreditato fosse casualmente rimasto a terra. L’atmosfera da scampagnata ha rafforzato i propri contorni durante il buffet, con critici intenti a strappare coi denti brandelli di carne dalle “coppiette” e vino sparso un po’ ovunque. Una scena degna della migliore commedia all’italiana, proprio quella commedia umana che in qualche modo Rosi ha utilizzato per dar corpo e senso alle storie rintracciate un po’ a caso – come affermato dallo stesso regista – nei pressi del raccordo.
Dell’intero scambio di battute sviluppatosi durante la conferenza stampa, le suggestioni più ammalianti le ha donate il “palmologo” Francesco, figura cardine del film, che parlando di Rosi ha detto “veniva dall’Africa e ha trovato un luogo creato a immagine dell’Africa. Gianfranco ha con sé la Forza, quella di Obi Wan Kenobi”. Il regista, dal canto suo, gli risponde parlando della storia di una persona che per due anni non ha capito come andava raccontata, “poi un giorno mi chiama per dirmi che sono sbarcati nuovi alieni, quelli cattivi, e hanno attaccato le sue palme. Così sono andato a trovarlo con la videocamera alle cinque del mattino e abbiamo girato la scena che conclude il film”. Rosi è un fiume in piena, racconta di maestri di vita e di cinema che gli hanno insegnato a riprendere senza fare mai domande, perché su dieci domande si otterranno dieci risposte diverse; parla di una gioventù che non è presente nei suoi film perché non sa come raccontarla, non la trova mai interessante; spiega con dovizia di particolari le difficoltà incontrate al montaggio, per un film episodico che di fatto non aveva un inizio e una fine. Si sofferma, come è ovvio, anche sul documentario (e qualcuno, anche nella produzione, continua a voler distinguere il documentario dal cinema, come Paolo Del Brocco che, probabilmente pensando di elogiare così il film di Rosi, afferma “per me non è un documentario, i documentari sono quelli sui leoni in televisione”), e stigmatizza l’articolo redatto da Curzio Maltese per La Repubblica, ennesima dimostrazione di un’ottica completamente sbagliata nell’approccio alla materia.
I suoi sodali, gli uomini e le donne che si sono prestati a essere suoi protagonisti in questo percorso attorno/dentro Roma, prendono la parola per ringraziarlo e per fare qualche battuta, con l’unica eccezione di Paolo, il nobile che vive in un piccolo appartamento con la figlia, che punta l’accento sulla lotta per la casa che dovranno affrontare nei prossimi mesi insieme ai loro condomini a rischio sfratto. Perché ogni scampagnata che si rispetti ha il suo momento di riflessione e di ricerca di un pensiero collettivo, di una sofferenza da condividere e da espiare.
L’ultimo pensiero va, come d’obbligo, a Renato Nicolini, ectoplasma che attraversa ogni singola inquadratura del film, come la Rebecca di hitchcockiana memoria, e senza il quale probabilmente neanche esisterebbe Sacro GRA. Suo il breve saggio sul Raccordo intitolato Una macchina celibe, da cui ha tratto ispirazione per il progetto Nicolò Bassetti, e sua la presenza nel documentario di Rosi Tanti futuri possibili, presentato lo scorso novembre al Festival Internazionale del Film di Roma. Nicolini avrebbe dovuto rappresentare il fil rouge anche di Sacro GRA, ma l’improvvisa malattia che lo ha portato alla morte non ha reso possibile questo sviluppo del film. Rosi ricorda come Nicolini gli abbia detto “Adesso questo cerchio lo devi aprire e renderlo una rete infinita”; operazione in gran parte riuscita, nonostante le critiche (quasi tutte rigorosamente post-vittoria veneziana, è giusto sottolinearlo) giunte al film.
Un’occasione di viaggio nel cinema, a Roma, nel traffico e nell’umanità seria, goffa, bizzarra e splendida, ma pur sempre una gita fuori porta. Il pullman poco per volta si ripopola, il chiacchiericcio sul più e sul meno riprende da dove si era interrotto e tutti tornano alla propria vita, con una storia da descrivere e parole da riportare. Il torpedone sfiora la città, come l’anello che la avvolge, e tutto torna a farsi routine. La scampagnata è finita, e ne resta memoria solo sui pannelli elettronici del G.R.A., pensati dall’Anas e che indicano agli autisti “Il vostro GRA vince il Leone d’Oro”.