Adieu au langage

Adieu au langage

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Il cinema di Jean-Luc Godard è sempre proteso in avanti e contemporaneamente ancorato a ciò che fu, e Adieu au langage non fa che confermarlo. Dolorosamente impossibile trovare un altro regista in grado di lavorare come lui sul senso della visione.

Il cane e l’occhio

Il proposito è semplice
Una donna sposata e un uomo libero si incontrano
Si amano, litigano, piovono colpi
Un cane si aggira tra la città e la campagna
Le stagioni passano
L’uomo e la donna si ritrovano
Il cane è con loro
L’altro è nell’uno
L’uno è nell’altro
E questi sono i tre
L’ex marito fa esplodere tutto
Un secondo film comincia
Uguale al primo
Non ancora
Dallo spazio umano si passa alla metafora
Finirà con un abbaiare
E il pianto di un bambino.
[sinossi]

Ma è il piede a deformarsi sotto lo sguardo della videocamera, allungandosi in maniera grottesca fino a sfiorare i confini della fiaba nera? O è lo sguardo che desidera a tal punto deformare l’immagine a trasformare un piede umano in qualcosa di mostruoso? L’immagine sfondata, infinita, campo lunghissimo eppure così intimo, chiuso, impossibilitato a essere altro da sé; non è operazione facile cercare di rintracciare parole per dare slancio a una disamina critica (ma ha senso un termine simile oggi, proprio oggi?) su Adieu au langage di Jean-Luc Godard, il film-monstre della sessantasettesima edizione del Festival di Cannes, infilato a forza in un concorso in cui non può e non potrà mai trovare uno spazio adeguato. Di fronte a un profluvio di registi che perpetuano una scelta di adeguamento alla prassi, raggiungendo anche risultati notevoli – Deux jours, une nuit dei Dardenne, The Homesman di Tommy Lee Jones – e “contro” chi si limita a rimettere in gioco pedine già destinate a essere mangiate, sacrificio del cinema oramai persino privo di alcun senso, oltre che disgustosamente autoassolutorio (il riprovevole The Search di Michel Hazanavicius), un’opera come Adieu au langage appartiene a galassie lontane distanze siderali, atto a cui non si è più (mai) abituati, e che è profondamente ingiusto far “giudicare” all’interno di un consesso. In questa altalenante Cannes 2014, pur non certo priva di titoli da chiudere a chiave nello scrigno delle memorie cinefile, solo un titolo è apparentabile ad Adieu au langage, Kaguya-hime no monogatari di Isao Takahata. E non è forse casuale che la selezione ufficiale e la Quinzaine des Réalisateurs abbiano deciso di programmare questi due titoli nel corso della stessa giornata, quasi l’uno di seguito all’altro, ideale punto di congiunzione tra l’estasi della riflessione teorica e dell’immarcescibile protendersi verso il futuro e l’estasi della conservazione di un linguaggio dato per morto dai marchingegni inumani dell’industria e dell’emozione come veicolo principale – ma non unico – del linguaggio.

Già, il linguaggio, la capacità dell’uomo di comunicare per mezzo di un codice. L’addio al linguaggio non presuppone però l’incapacità dell’uomo contemporaneo a comunicare, né quella dello stesso Godard, ma piuttosto l’inutilità di un linguaggio condiviso che sia accettato, riconosciuto, stabile, perfetto.
Adieu au langage, come già Film socialisme – senza andare a elencare il percorso autoriale di Godard – è il deliberato disinnesco di un dispositivo funzionante per infinita reiterazione, ma che oramai ha perso qualsiasi senso ulteriore. Quando ancora non esiste immagine irrompe il Canzoniere Pisano di Alfredo Bandelli con “Il potere agli operai! No alla scuola del padrone! Sempre uniti vinceremo, viva la rivoluzione!”, ma è uno scherzo di breve durata, una delle schegge di memoria che vagano in Adieu au langage, dagli schermi che fanno da sfondo/sfondato ai protagonisti su cui ancora sopravvive il cinema “classico” fino a frammenti sonori. Lacerti di un mondo che non c’è più, scorie ancora vive ma non più pulsanti, che nella fantasmagoria del 3D risorgono per pochi istanti, sovrapponendosi in maniera impossibile alla realtà che non esiste, ma che la videocamera non può che intrappolare.
Il cinema di Godard non è uno strumento sovrumano, semplicemente non ha più bisogno dell’umano per definirsi: in un inedito mélange tra specie è l’animale a sottomettere lo sguardo dell’uomo, e non l’inverso. Così il protagonista di Adieu au langage diventa il cane dello stesso Godard, a cui la videocamera non chiede altro se non di essere quello che è. Unica e ultima ancora del linguaggio, eppure già sconfitta dalla tecnologia umana. “Tous ceux qui manquent d’imagination se réfugient dans la réalité” sentenziano le scritte su schermo nero prima dell’immagine: la realtà è un rifugio privo di considerazione perché accettarla come tale significa annullare il proprio diritto allo sguardo.

Adieu au langage non diventa mai riflessione – inevitabilmente sterile, in un cinema come quello di Godard – sul “senso” dello sguardo, ma si protende in direzione di un esperimento di investigazione cinematografica, in cui il dispositivo tecnologico per eccellenza dell’industria, la stereoscopia, si tramuta nel grimaldello indispensabile per forzare le giunture arrugginite della visione. La tridimensionalità di Adieu au langage sfonda lo schermo, lo rende superficie rettangolare svilita, fa esplodere le immagini in una vertigine alla quale è impossibile trovare scampo, e costringe finalmente lo spettatore a imparare a vedere. L’occhio come evoluzione biologica della lacrima, per citare Alberto Grifi, non basta più al cinema, è necessario rifondare il dispositivo ottico, è indispensabile che lo sguardo impari a decidere e non accetti più l’immagine come tale. Durante la visione di Adieu au langage l’immagine in tre dimensioni si sovrappone sullo schermo, rendendo impossibile la visione: l’istinto di conservazione dell’integrità dell’occhio spingerà lo spettatore a togliere gli occhiali per cercare di trovare una falla nel meccanismo usurato della tecnica, ma ne rimarrà deluso.
Basteranno pochi secondi, gli stessi che impiega la principessa Kaguya per imitare il saltellio goffo delle raganelle, per capire ciò che si deve fare: inforcare nuovamente gli occhiali e chiudere un occhio per godere di un campo; quindi chiudere l’altro occhio e osservare il contro-campo. Jean-Luc Godard, unico cineasta in grado di lavorare sempre e soltanto in direzione di un rinnovamento palingenetico dell’immagine in movimento, crea una nuova grammatica del montaggio, in cui l’atto dell’edizione è gestito interamente dallo sguardo stesso dello spettatore. L’addio al linguaggio è di per sé la creazione spontanea di un nuovo linguaggio, imperfetto e a sua volta destinato a essere superato, reinventato, comprensibile solo a chi non si limita ad accettare la realtà.
Il gesto cinematografico come apertura e chiusura di un gesto intellettuale che è sempre gesto politico, perforazione dell’ovvio, profanazione del “bello” e sua ricreazione. Nulla assomiglia al cinema di Godard perché deve ancora avvenire, perennemente in posizione di avanguardia ma consapevole della necessità di essere retroguardia di se stessi. Il resto è poesia inimitabile, sinfonia che non dimentica le proprie origini (“Una donna non può fare del male: può annoiarsi, uccidere… Nient’altro.”), iperuranio del senso che travalica paletti del tutto evanescenti come genere e formato. Anche il voto, che pure trovate inserito in cima alla recensione, è superfluo di fronte allo strapotere di Adieu au langage, immagine in  movimento che non ha spazio e si fa beffe del tempo, aggredisce il suono, sparpaglia i corpi umani in un quadro dentro il quale si potrebbe annegare, balugina fantasie di noir volutamente schematici, contrappone la natura alla metafora per trovare una “metafora naturale”, cita Jacques Ellul solo perché anche quella di Godard, in fin dei conti, è un’infinita “autopsia della rivoluzione”. Ma un’autopsia su un corpo ancora vivo e di una rivoluzione mai raggiunta, eppure sempre vagheggiata e rincorsa.
“Solo i cani ti amano più di se stessi”. Già. Addio al linguaggio. Ah Dieux, oh langage. Tutto è già finito, per questo nulla finisce più. E il pianto di un bambino arriva da un luogo sconosciuto, forse ancora inesistente. Siamo pronti al nuovo linguaggio? Lo saremo mai? Il sangue invade la fontana, ma il cane sta solo sognando. Siamo ancora vivi, forse.

Info
Il trailer di Adieu au langage.
Adieu au langage sul sito del Festival di Cannes.
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