Intervista a Bahadur Bham Min

Intervista a Bahadur Bham Min

Abbiamo incontrato Bahadur Bham Min, autore di The Black Hen, primo film nepalese a essere presentato a Venezia in tutta la storia del festival. È stato selezionato per la Settimana Internazionale della Critica e sono intervenuti anche il producer Anup Thapa e il line producer Upendra Jung Shahi. Il film è ambientato in un villaggio nepalese nel contesto degli scontri tra maoisti e regime durante la guerra civile che ha coinvolto il Paese tra il 1996 e il 2006. A fare da filo conduttore, la ricerca di una gallina da parte di due bambini, legati da profonda amicizia.

Quanto sono durate le riprese di The Black Hen e come hai trovato la storia, i personaggi e gli attori?

Min Bahadur Bham: Abbiamo girato per 4 settimane, ma abbiamo passato almeno 6 mesi a preparare le riprese. La storia invece è basata sulla mia infanzia e i miei amici, perciò non è stato così difficile trovarla. Appena finito il mio precedente cortometraggio mi sono messo a cercare una storia per un lungo, e improvvisamente sono stato sopraffatto da sentimenti ed emozioni legati al passato. Ho un sacco di memorie legate al mio villaggio. Così ho capito che volevo raccontare questa storia. Per quanto riguarda gli attori, la maggior parte di loro vengono dal vero villaggio, sono abitanti del posto non professionisti. Non avevano mai visto le attrezzature del cinema nella loro vita né una macchina da presa. È stato molto interessante lavorare con loro. È stato difficile gestirli, soprattutto è stato molto complicato chiedere loro di ricordarsi i dialoghi.

Una parte del film racconta la fuga di una ragazza dalla famiglia per unirsi ai maoisti. Qual è la tua posizione rispetto alla scelta della ragazza?

Bahadur Bham Min: Molte ragazze e donne più adulte hanno aderito al movimento maoista. L’idea era raccontare due ragazze – la sorella del protagonista e la sorella del suo amico – che rappresentassero una la posizione del governo, l’altra quella dei maoisti, mettere in scena semplicemente i loro caratteri opposti, narrando la loro lotta dall’interno. Ma soprattutto volevo focalizzarmi su due ragazzini che sono molto amici e che vogliono davvero godersi la loro vita in quelle circostanze.

Abbiamo notato nella struttura del film alcuni riferimenti al neorealismo italiano e ad altri più recenti neorealismi orientali (gli iraniani, Abbas Kiarostami…). In particolare la gallina nera può essere paragonata alla bicicletta di Ladri di biciclette. Era una tua intenzione?

Bahadur Bham Min: In effetti all’inizio della mia carriera cinematografica sono stato fortemente influenzato dai filmmaker italiani del neorealismo, poi ho iniziato a sviluppare un gusto personale e mi sono reso conto che adesso in Nepal la situazione sociale ricorda le condizioni italiane, sudcoreane, iraniane, ma non di questo tempo. Forse si può paragonare il mio paese di adesso all’Italia di 50 anni fa. In questo senso ho trovato molte somiglianze. Poi, quando ho finito la seconda stesura dello script, d’improvviso ho capito che non avevo seguito gli schemi di altri autori famosi, bensì avevo cercato di dare a questa storia una veste estremamente locale. Quando ho scritto la prima stesura, invece, sono andato al villaggio e ho fatto ricerche e interviste con le persone del posto e ho capito una volta di più che avevano una vita molto diversa rispetto alla città. In città la gente si occupa dei soldi da mattina a sera, esce per un drink, per fare due passi… Invece nei villaggi come il mio non c’è tutta questa ampiezza di scelta. Così ho cercato di tenere presente l’influenza del neorealismo italiano ma anche di raccontare la realtà specifica di questo villaggio. Le vite nel villaggio sono talvolta molto felici, e altre volte tragiche per lo scenario politico e per gli steccati sociali. Quindi c’è sì un po’ di neorealismo italiano e iraniano, ma la mia intenzione era trasformare il film in un’opera molto legata al territorio. Credo che ogni storia abbia la sua struttura specifica.

Com’è stato il lavoro coi bambini? Com’erano davanti alla macchina da presa? Erano curiosi, spaventati, timidi…?

Bahadur Bham Min: Quando ho cominciato le riprese c’era un sacco di “pubblico”, migliaia di persone del villaggio, ed è stato davvero complicato gestirle. La mia troupe controllava la folla, ma la situazione era ancora più difficile per i bambini. Durante la preparazione i bambini erano molto amichevoli con me, fin dall’inizio ho cercato di essere un buon amico per loro. Con loro sono tornato bambino anch’io, credevano in me e si fidavano, c’era un’ottima chimica tra di noi. Poi però quando abbiamo iniziato a girare, i due piccoli protagonisti erano totalmente pietrificati; erano presenti i loro genitori, i parenti, gli insegnanti, perciò erano letteralmente bloccati. Così ho parlato con la mia produzione e ho fatto mandare via genitori, parenti e insegnanti che inibivano i bambini con la loro presenza. E comunque è stato difficilissimo gestirli. All’inizio erano molto spontanei, molto legati a me e alla troupe. E più volte la troupe e la produzione mi hanno fatto notare che dovevo essere più autoritario con loro. Invece la mia concentrazione era tutta dedicata a tornare bambino, perché solo così loro si sarebbero aperti con me. Tuttora abbiamo mantenuto una bella amicizia. Ogni volta che torno nel mio paese e li incontro, entro subito in sintonia con loro. È stata un’esperienza estremamente interessante per la mia vita, perché quand’ero piccolo nella mia famiglia c’erano un sacco di proibizioni, non mi era permesso di uscire né di giocare con i miei amici. All’epoca le regole familiari erano molto severe e i miei genitori mi ripetevano sempre di studiare bene. Anni dopo ho capito così di aver passato la mia infanzia come un uomo adulto, leggendo libri, cucinando, anche quando avevo dieci anni. Perciò paradossalmente ho molte cose da esplorare nell’infanzia, non le ho mai conosciute nella mia vita e ho potuto cominciare a viverle tramite la realizzazione di questo film.

Quali sono state le difficoltà maggiori nella realizzazione del film?

Upendra Jung Shahi (line producer): In Nepal siamo ancora lontani da un’effettiva era moderna. È un paese sottosviluppato, durante le riprese dovevamo appoggiarci a città non vicine al villaggio, non ci sono autostrade, strutture viarie, dovevamo prenotare voli da lontano rispetto alle location. E poi nei posti in cui giravamo ovviamente non c’erano hotel ed era difficile organizzarsi pure per il cibo.

Qual è la situazione dell’industria cinematografica nepalese?

Bahadur Bham Min: In questo momento in Nepal si producono più di 150 film all’anno, come in Europa e in India, ma nessuno di essi è veramente buono. Copiamo tutto dall’India: melodramma, un po’ di canzoni, combattimenti, come Bollywood, che però ha un sacco di possibilità, denaro, tecnici, maestranze, hanno ottime professionalità dal punto di vista tecnico. Noi invece non abbiamo così tante risorse, perciò questo cinema d’imitazione che si prova a fare da noi spesso scadente. La cosa assai buona però è che ogni giovane filmmaker nepalese vuole davvero fare film, ma più seriamente, vuole fare “arthouse films”. Però non sappiamo come, né dove andare. Ho un sacco di amici filmmaker in Nepal che vogliono fare cinema, ogni giorno ci ritroviamo insieme a prendere un caffè e parliamo di cinema, festival, Tarkovskij, Kiarostami, Wong Kar-wai, ma alla fine della giornata nessuno di noi ha idea di come fare, qual è il processo produttivo per fare veri film d’arte, quali sono le risorse, come reperire fondi, come muoversi sui festival, come cercare coproduzioni. Non abbiamo alcun tipo di pratica, siamo delle specie di eterni studenti. Questo è il primo film nepalese a Venezia, è una coproduzione, ed essere qui è una grande conquista per me e per il mio paese. Molti miei amici sono contenti della mia presenza qui, mi mandano messaggi e mail di continuo. Mi dicono che sono diventato una sorta di loro “leader”. Per il mio ritorno in Nepal sto programmando di fare film nei prossimi cinque anni, ma non come regista. Come regista al massimo posso farne uno in questo lasso di tempo. Voglio invece farne tanti come “producer”, e che siano veri “arthouse movies”. Posso aiutare i miei colleghi nepalesi, motivarli e spiegare loro qual è il percorso da fare, come funziona con i festival… Sono pieno di speranze per il cinema del mio paese. Sono sicuro che nei prossimi cinque anni produrremo ottimo cinema. Forse non riusciremo a fare qualcosa ai livelli di Kiarostami, ma cercheremo la nostra strada, il nostro stile. Non copieremo dall’India o dalla Cina; il cinema nepalese avrà il suo stile specifico.

Qual è il cinema internazionale più apprezzato in Nepal?

Bahadur Bham Min: Se lo chiedi ai filmmaker, ovviamente amano molto il cinema italiano, iraniano e cinese, e talvolta anche sudcoreano, come Kim Ki-duk, e poi autori come Tarkovskij. Se lo chiedi al pubblico normale, amano soltanto le star, tipo Angelina Jolie o i film di Spider Man.

Nel film viene dato alla gallina il nome di un’attrice nepalese. Qual è dunque la cultura nel tuo paese riguardo all’immaginario cinematografico?

Bahadur Bham Min: L’idea di dare alla gallina il nome dell’attrice nepalese Karishma viene dall’intento di dare al film un aspetto estremamente locale. È un’attrice molto famosa in Nepal, e il significato del nome è tipo “meraviglioso” o “regina”. Nella storia la gallina è un elemento molto importante, è il personaggio principale e una sorta di metafora. Da noi tutti quanti amano il cinema, anche nel nostro villaggio molti cercano di risparmiare denaro per andare in città a vedersi un film. Non conosciamo tutto il cinema ma lo amiamo molto. È parte della nostra vita. Ti faccio un esempio: se ti compri un nuovo vestito o cappotto, tutti quanti dicono che somigli a questo o quell’attore. E le donne soprattutto, se si mettono eleganti, si paragonano tra di loro a Karishma.

Come hai scelto le location? Le hai modificate o le hai utilizzate così com’erano?

Bahadur Bham Min: La location è il mio stesso villaggio. Ho passato lì la mia infanzia, e ho capito che una storia del genere non poteva essere girata in città. La lingua che abbiamo utilizzato nel film è l’originale lingua nepalese. Era il posto perfetto per la mia storia, un nucleo di lingua nazionale, storia e cultura locale. Le persone sembrano tuttora molto “esotiche”. Ne abbiamo parlato con i miei produttori e mi avevano proposto altri villaggi più vicini alla città. Ci siamo andati ma non mi sentivo realmente a mio agio. Ho parlato con le persone, guardato i paesaggi ma non sentivo particolari emozioni davanti a queste location alternative. Così ho insistito per girare al mio villaggio e grazie a Dio i produttori alla fine hanno accettato. Non è stato facile, abbiamo camminato moltissimo tra possibili location intorno al villaggio e spesso i paesaggi non mi piacevano. E se mi piacevano, là intorno c’erano soltanto due o tre case e non c’era né cibo né acqua. Ogni giorno camminavamo almeno sei ore per trovare luoghi in cui girare, e spesso utilizzavamo tutto il tempo della giornata solo camminando invece di girare. Durante le ultime riprese ci siamo trovati anche in una situazione molto complicata. Io e il mio direttore della fotografia infatti abbiamo rischiato di morire in cima alla montagna; alla fine siamo stati salvati da un elicottero arrivato dalla capitale. Avevamo freddo, la febbre, non c’era cibo buono né acqua. Sono nato e vissuto in quel villaggio ma mi sono trasferito nella capitale da quattordici anni per cui non ero più abituato a certe condizioni climatiche.

Ho una domanda per tutti e tre. Hai parlato del film e della tua infanzia. Quanto è autobiografico il tuo film, e per gli altri due, quanto avete ritrovato della vostra infanzia e della vostra vita in questo film?

Upendra Jung Shahi (line producer): Ci sono somiglianze con la mia infanzia. Sono nato nello stesso posto, nel villaggio dove abbiamo girato. Ho ritrovato delle sensazioni e la storia è molto simile alla mia vita. Mi sono trovato in quella situazione quando avevo undici anni. I maoisti lottavano contro il governo. Eravamo spaventati e pensavamo a come sopravvivere in mezzo a quelle tensioni. La vicenda dei due bambini nel film mi ha ricordato molte cose. Quando ho visto il film ho pensato “Questa è la mia storia”.

Anup Thapa (producer): Ricordo che all’epoca avevo dodici anni. Alle 9 di sera avvenne uno scontro nella mia città. Ero nella mia stanza e il cuore batteva forte. Ero molto spaventato. Nel film si parla anche di questo.

Bahadur Bham Min: Nella prima versione della sceneggiatura, c’era il 100% della mia vita. Dopo varie riscritture sono sceso a circa l’80%. Nelle ultime versioni ho avuto bisogno di rendere il film più acuto, strutturare meglio la storia. All’inizio volevo restituire totalmente come avevo vissuto certe situazioni nella mia infanzia. Successivamente sono stato invaso da un sacco di emozioni che mi hanno permesso di drammatizzare la storia e di concentrarmi sul linguaggio cinematografico.

In Nepal il film sarà distribuito?

Bahadur Bham Min: Abbiamo trovato un distributore locale e stiamo programmando di far uscire il film a marzo dell’anno prossimo. Avremmo voluto distribuirlo subito, ma adesso la situazione in Nepal non è buona. Molte sale sono danneggiate per il recente terremoto che c’è stato da noi, e la situazione è molto complicata anche per lo scenario politico. Spero che esca a marzo, ma l’importante è che un sacco di persone ci stiano supportando. Abbiamo anche dei problemi con la censura, ad esempio non possiamo mostrare scene in cui gli attori si fumano una sigaretta. È una situazione difficile per noi filmmaker. Avremo sicuramente difficoltà per la distribuzione del film in Nepal, è probabile che il governo abbia qualcosa da ridire. Magari mi cacceranno dal paese [ride, n.d.r.].

Info
La scheda di The Black Hen sul sito della Settimana Internazionale della Critica.

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