In fondo al bosco

In fondo al bosco

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Thriller d’ambientazione alpina, In fondo al bosco di Stefano Lodovichi è un film di buona fattura ma di scarsa inventiva, troppo “pulito” per inquietare e troppo derivativo per appassionare.

Il bambino che venne dal bosco

Ogni 5 dicembre, da tempo immemore, gli abitanti di un piccolo villaggio montano sfilano mascherati da diavoli in un baccanale che dura fino all’alba: la festa dei Krampus. Ma il 5 dicembre del 2010 è ricordato per un evento diverso e terribile: Tommaso Conci, un bambino di 4 anni, scompare nel nulla. [sinossi]

Non eravamo rimasti favorevolmente colpiti dal film d’esordio di Stefano Lodovichi, Aquadro, drammatica storia d’amore adolescenziale che avrebbe voluto essere torbida senza però riuscire ad esserlo; e così anche il secondo lungometraggio di questo giovane regista italiano, In fondo al bosco – prima produzione Sky Cinema, realizzata in associazione con Onemore Pictures – conferma le nostre perplessità in proposito e, come il film precedente (anche se in misura minore), ci appare più che altro un atto mancato.
Stavolta Lodovichi prova ad affrontare di petto l’horror-thriller, mirando per certi versi anche al mistery: l’oggetto del mistero del racconto – uno spunto di per sé molto interessante – è un bambino scomparso e poi ritrovato intorno a cui si coalizza la diffidenza dei suoi compaesani – siamo in un villaggio della Val di Fassa – tanto che si arriva a temere che il piccolo possa essere il diavolo in persona.
Dopo una scena iniziale un po’ maldestra nel modo in cui si mette in scena la scomparsa del pargoletto – il padre, interpretato da Filippo Nigro, è preda del demone della bottiglia e lo scaraventa addirittura a terra perché impegnato a chiacchierare con gli amici – Lodovichi piazza con i titoli di testa la sua sequenza più riuscita, quella in cui emerge l’intenzione di usare il cinema di genere come meccanismo per alludere a forme di paranoia tipiche della nostrana società dello spettacolo (il padre individuato inizialmente come assassino, la madre che tenta il suicidio, l’ipocrisia che si avviluppa intorno ai due da parte di conoscenti ed amici).
Dopodiché si capisce ben presto che le idee scarseggiano e che il racconto procederà per strappi, per qualche improvviso lampo, ma soprattutto con ben poche variazioni intorno al tema della presunta possessione demoniaca (si veda ad esempio l’estenuante reiterazione di scenette con il matto del paese che continua a digrignare i denti spaventato, ripetendo che il piccolo è il diavolo).

Va a finire perciò che In fondo al bosco si connota come un thriller di buona fattura – i mezzi produttivi non mancano, la fotografia è curata, gli attori fanno la loro parte – in cui vi è ben poco da dire: da un lato la tensione non cresce, limitata dall’insistita atmosfera sospesa che prova a celare la mancanza di un buon marchingegno narrativo, dall’altro lo spunto da racconto morale si esaurisce troppo presto per poi riproporsi, in maniera scomposta e in un crescendo di inverosimiglianza, attraverso una serie di colpi di scena finali.
Verrebbe anzi da aggiungere che, con uno scheletro narrativo tanto basico, In fondo al bosco appare persino troppo levigato e ‘pulito’. Con un plot così, infatti, un tempo qualche regista americano indipendente avrebbe confezionato un prodotto ruspante e gore, pieno di situazioni al limite e con tanto sano spirito amatoriale, capace al contempo di esasperare le ipocrisie comunitarie e di realizzare dunque un autentico film politico. Ludovichi invece, del resto così come in Aquadro, si lascia troppo influenzare dalle sirene della buona confezione, non portando alle estreme conseguenze le finalità del suo discorso.
Va detto, comunque, che In fondo al bosco si adagia su una tendenza complessiva del cinema contemporaneo che fa sì che sia sempre più difficile riuscire ad affondare il discorso intorno al cinema di genere. Tutto è vietato, tutto è proibito e allora una sorta di autocensura impone che l’horror – potenzialmente il genere più eversivo che vi sia – appaia ‘carino’ e composto, laddove invece sono la scompostezza, l’urlo, lo sberleffo a inquietare davvero e non il politically correct, che ti induce a pensare che in fin dei conti niente di male può accadere.

Ecco che allora In fondo al bosco si iscrive nella tendenza dell’horror di superficie, quello che non va a scandagliare gli autentici rimossi di una società, finendo dunque per fare il verso a quei ‘buoni’ prodotti statunitensi che si son visti negli ultimi anni (ad esempio, tutti i remake recenti dei film di Carpenter) e che, al di là della mission dell’entertainment (che, tra l’altro, portano a casa con grande difficoltà), non hanno nulla di nuovo da offrire e niente di particolare da dire.
Alla dimensione di film d’occasione contribuisce poi anche l’istanza Film Commission. Sia pure in misura minore rispetto ad Aquadro, si sente infatti anche in In fondo al bosco tutto il peso della Trentino Film Commission, come se la storia nascesse in funzione di una location specifica volta a valorizzare il territorio e non il contrario, vale a dire in base ad urgenze espressive.
Ciò detto, resta il fatto che – rispetto ad altri recenti tentativi di thriller/horror fatti in Italia, si pensi ai fallimenti di Imago Mortis o di Tulpa – il film di Lodovichi quantomeno non appare dannoso in vista di un possibile rinnovamento e, anzi, potrebbe persino configurarsi come un primo – ennesimo – passo verso un percorso che conduca a un più dignitoso cinema di genere italiano, laddove però si deve ritrovare il giusto confluire di energie tra esigenze produttive e specifiche e precise esigenze autoriali.

Info
Il trailer di In fondo al bosco su Youtube.
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