La Jetée

La Jetée

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La Jetée di Chris Marker, vale a dire uno dei viaggi più affascinanti del cinema, rivive sugli schermi del Torino Film Festival. Un photo-roman post-atomico, dolente e teorico allo stesso tempo.

La donna è il passato del futuro

Un bambino si trova a Parigi all’Aeroporto di Orly, e assiste a un incidente. Un uomo viene assassinato e mentre la folla si riversa verso di lui, il bambino è attratto da una donna e la fissa incurante di quello che accade attorno a lui. Passano una trentina d’anni. Dopo una catastrofe nucleare, il mondo è al degrado e nei sotterranei della città, forse ancora radioattiva, alcuni scienziati sperimentano il viaggio nel tempo… [sinossi]

Non esiste nulla che assomigli realmente a La Jetée, il più celebrato tra i film di Chris Marker che il Torino Film Festival ospita, com’è giusto e doveroso, all’interno della retrospettiva dedicata alla fantascienza. Non è “solo” una questione di valore, né di mera importanza, con il lascito testamentario del film che ha contribuito a far germinare molta sci-fi a venire (il caso più noto è senza dubbio L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam, che paga fin nell’attribuzione dei credits il suo debito nei confronti di Marker, ma in realtà molteplici sarebbero le citazioni criptate o palesi rintracciabili nei vari film). Se La Jetée appare come una creatura altra, distante da altre esperienze di riscrittura della narrazione, il perché lo si può decifrare già da una scritta sui titoli di testa: “un photo-roman de Chris Marker”. Un fotoromanzo dunque, con il termine che acquista una duplice valenza. Se da un lato La Jetée rispetta in tutto i codici del fotoromanzo, mescolando il genere – la fantascienza, come già scritto – a un sentimentalismo espanso, deflagrante, totale, dall’altro Marker supera a pie’ pari qualsiasi incomprensione mettendo in scena un fotoromanzo. Un’opera composta da fotogrammi. Un’opera immota, l’esatto opposto dell’idea di κινεμα, “immagine in movimento”.

L’apparenza de La Jetée come film inerte si ribalta però fin dalle primissime sequenze, con l’io narrante che ricorda come tutto ebbe inizio, all’aeroporto di Orly: lui bambino, quell’omicidio, e la donna… La donna… Per quanto si muova su tre livelli temporali diversi (il passato, prima del bombardamento di Parigi; il presente, con gli unici superstiti a vivere sottoterra, sia carcerieri che prigionieri; il futuro, in cui il protagonista viene spedito dagli scienziati), il film di Marker non esiste in realtà in nessun tempo, perché tutto è dettato dalla voce narrante, che travalica il tempo e sovverte anche i limiti dello spazio. Non ha luogo e non ha spazio, La Jetée, e per questo sembra quasi slittare dal senso comune, dalla logica, dalla forma generalmente considerata compiuta.
Così come riesce a costruire un’immagine in movimento che nega il movimento fin dalla base della sua esistenza, alla stessa stregua Marker riesce a creare un perfetto meccanismo della memoria (il passato come unica àncora di salvezza per resistere alla delirante follia del contemporaneo, il passato come sogno irrealizzabile e per questo, nella sovversione del tempo, ancora possibile da realizzare) sfruttando una fantascienza che si fa intima, e per questo quasi insondabile. Ricorda e anticipa in qualche modo lo splendido Alain Resnais di Je t’aime, je t’aime, a sua volta ingranaggio sci-fi che sfruttava le coordinate del genere per eliminare ogni concezione di spazio e tempo e vivere solo ed esclusivamente nel dolore della memoria del protagonista (in quel caso Claude Rich).

Nel suo viaggio indietro nel tempo, a inseguire un volto di donna che all’epoca dei fatti non poteva diventare oggetto del desiderio sessuale (il protagonista era solo un bambino) e che ora invece è pronto, inconsapevolmente, per una relazione amorosa, l’io narrante crea una esemplare dimensione ucronica, che riesce anche a essere messa in pratica di un’illusione. Così come il cinema illude lo spettatore di un movimento che è solo ipotetico, artefatto, meccanico – il montaggio, che è il ricreatore del movimento anche ne La Jetée –, anche l’uomo illude la donna, coinvolgendola in un sentimento che non potrà avere mai davvero soluzione, né (lieto) fine.
Sovrapponendo la sintassi fotografica allo spleen poetico del narratore, La Jetée riesce nel compito improbo di coniugare sperimentazione e afflato romantico, per arrivare al più estremo e doloroso dei paradossi: l’uomo che può vedere la propria morte, senza ovviamente rendersi conto di ciò che sta vedendo. In quel finale beffardo sulla piattaforma di osservazione, che richiude il film in un ciclo infinito, come il “riprendere dall’inizio” di debordiana memoria farà nel finale di In girum imus nocte et consumimur igni, in quel fotogramma impensabile che mostra la morte di chi narra e di chi vede/vive ancora, in un passato che è futuro e presente allo stesso tempo, in quel finale beffardo si diceva non si gioca solo la carta di un colpo di scena, ennesima artefazione che è propria anche del fotoromanzo. No.

Il finale de La Jetée, che meriterebbe da solo fiumi di inchiostro e pagine e pagine e pagine online, è il punto in cui l’ucronia può finalmente sposarsi all’utopia, recisa rabberciata massacrata da quella distopia che è il vero male che minaccia il protagonista. Deciso a perdersi in un sogno/favola che non è altro che l’ultimo aggancio alla vita, il narratore deve fuggire da una distopia che ha preso il sopravvento, schiacciando l’uomo in un non-luogo là dove un tempo c’era ancora Parigi, la città. La vita. È un grande inno all’esistere, La Jetée, e a continuare a resistere nonostante la verità sia morte e sopraffazione, prigionia e dolore. Resistere. Resistere ancora. Resistere nel sogno per trasformarlo in una realtà altra, apparente eppure reale, come quell’amore che vive, esiste, c’è. Quella relazione che il tempo, se il tempo esistesse ancora, avrebbe reso impossibile. Ma il tempo, come lo spazio, non ci sono più, e per questo tutto deve richiudersi in un ciclo infinito. Un ciclo immobile, congelato come le immagini fotografiche, che sono vita-senza-vita. Ma per un attimo, un attimo solo, il movimento c’è. Lo si percepisce. È un sorriso fuggevole, ma lo si percepisce. Il cuore sussulta una volta in più, perché sognare ha senso. È vivere, nonostante il tempo. Al di fuori del tempo, nella memoria, anche quella del cinema come la struggente citazione da Vertigo di Alfred Hitchcock.
Non c’è nulla che assomigli a La Jetée di Chris Marker. Ed è giusto che sia così.

Info
La Jetée su Youtube, in versione originale con sottotitoli inglesi.
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