Il disprezzo

Il disprezzo

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Il disprezzo di Jean-Luc Godard torna in sala in versione integrale e restaurata, permettendo così finalmente agli spettatori italiani di incontrare sul grande schermo un capolavoro che all’epoca venne martoriato dalla produzione di Carlo Ponti. Una riflessione sul cinema che prende spunto da un romanzo di Moravia e mette in scena Michel Piccoli, Brigitte Bardot, Jack Palance e Fritz Lang nel ruolo di se stesso.

Odissea nuda

Lo scrittore Paul Javal vive a Roma con la moglie Camille. Gli viene chiesto dal produttore americano Jerry Prokosch di riscrivere la sceneggiatura di un film ispirato all’Odissea la cui regia è stata affidata a Fritz Lang che Prokosch ritiene troppo intellettuale. Il produttore è attratto da Camille e Paul lascia che i due, nonostante la contrarietà di lei, possano rimanere da soli. Da questa situazione prende forma il disprezzo che Camille inizierà a provare per il marito. [sinossi]

“C’est d’après le roman d’Alberto Moravia. Il y a Brigitte Bardot et Michel Piccoli. Il y a aussi Jack Palance et Giorgia Moll. Et Fritz Lang. Les prises de vue sont de Raoul Coutard. Georges Delerue a écrit la musique. Et le son a été enregistré par William Sivel. Le montage est d’Agnès Guillemot. Philippe Dussart c’est occupé de la régie avec Carlo Lastricatti. C’est un film de Jean-Luc Godard. Il est tourné en Scope et tiré en couleur par GTC à Jouinville. Il a été produit par Georges de Beauregard et Carlo Ponti, pour les sociétés Rome-Paris Films, Concordia, Compagnia Cinematograffica Champion à Rome. ‘Le cinéma’, disait André Bazin, ‘substitut à notre regard un monde qui s’accorde à nos désirs.’ «Le Mépris» est l’histoire de ce monde.”
Se non avete mai sentito la voce di Jean-Luc Godard sostituirsi alla prassi dei titoli di testa per declamarli, nell’incipit de Il disprezzo, semplicemente non avete mai visto davvero Il disprezzo. La tormentata storia della distribuzione italiana di quello che all’epoca era il sesto lungometraggio portato a termine da Godard è nota, ma è indispensabile ripartire da qui per affrontare la nuova uscita in sala del suo capolavoro più martoriato, incompreso, in un certo senso disprezzato. La fine in qualche modo inevitabile per film sull’immagine e sul suo senso, sulla verità e il mito e sulla società del Capitale, diretto da un autore che fin dal suo primo brillìo nel buio (Fino all’ultimo respiro, frenesia del cinema che si interroga sull’apatia dell’immobilismo amoroso, e sull’immagine/simbolo resa statica dall’ovvietà della consunzione temporale) aveva rovesciato il senso dell’esistere stesso del cinema. Chissà quale fu la reazione epidermica di Carlo Ponti (appena uscito indenne dall’accusa di bigamia per aver sposato Sophia Loren in Messico quando in Italia il divorzio ancora non esisteva [1]), che pensava di sfruttare a suo piacimento il giovane prodigio del cinema d’oltralpe per radicare ulteriormente il proprio assetto produttivo. Dopotutto, sempre “in combutta” con Georges de Beauregard, aveva prodotto La donna è donna e pochi mesi prima del set de Il disprezzo, nonostante non appaia nei crediti ufficiali, aveva contribuito anche alla realizzazione de Les Carabiniers, forse l’opera più radicale della prima fase produttiva di Godard.

Da un lato Les Carabiniers, dall’altro Il disprezzo. Tesi, antitesi e sintesi in un unico faccia a faccia a distanza. Nello sforzo di una dialettica che si apra non solo al prevedibile confronto con il pubblico, ma sappia anche interrogarsi su di sé, sul senso dell’immagine in movimento e della storia che si sta producendo, dentro, vicino e lontano da essa, questi due film rappresentano un punto di ripartenza, nodo solo all’apparenza improvvisato ma in realtà denso di stratificazioni, riletture, partenze e ritorni. Les Carabiniers, che si dimostrò da subito un clamoroso insuccesso commerciale – il primo per Godard, e uno dei più inattesi – è un dramma raggelato in bianco e nero, che soffoca l’impeto anarchico della nouvelle vague sotto il peso elefantiaco del sistema, del potere costituito: la guerra è immagine specchiata di sé, non ha mitologia nel reale, ma solo nella finzione (e infatti il regista utilizzerà per le sequenze di battaglia solo materiale d’archivio, senza girare nulla ex-novo) o nella sua decostruzione, come la poesia di Majakovskij cui si aggrappa come ultima memoria una rivoluzionaria destinata all’esecuzione.
Il piano sequenza su cui si apre il “vero” Il disprezzo (non la sua rabberciata versione italiana, che non troverà ulteriore spazio all’interno di questa disamina) sembra già volersi posizionare sul lato opposto della barricata: il solare technicolor, il movimento di macchina fluido e che va a posizionare lo sguardo della macchina da presa in scena sul pubblico. Da un film di guerra tratto dal testo teatrale di un antifascista, Beniamino Joppolo, che tracimava umori poco malleabili, a una storia d’amore borghese che prende il la da un romanzo di Alberto Moravia. Sulla carta. Il disprezzo è il film che meglio di tutti evidenzia anche agli occhi più stropicciati l’impossibilità di ammaestrare Jean-Luc Godard. Alle prese con un soggetto altrui a dir poco dominante, il giovane regista franco-svizzero non si piega alla logica dell’adattamento, ma sfrutta le dinamiche insite nel romanzo per scardinare una volta di più la prassi o, meglio, per aprire una riflessione su ciò che significano senso e rappresentazione.

Così come Les Carabiniers “giocava” a decostruire il mito, raccontando le vicessitudini di personaggi dai nomi altisonanti (Ulysse, Michel-Ange, Vénus, Cléopâtre) in un contesto reale quale una nazione in stato di guerra, Il disprezzo si muove nei meandri della prassi narrativa dell’epoca – la crisi della famiglia borghese, epicentro epico-quotidiano dell’arte del Novecento – per sottolinearne l’artificiosità, la struttura sistemica. C’è un Ulisse anche nelle vite di Paul e Camille Javal, ma è un Ulisse irreale, quell’Odissea che Paul dovrebbe scrivere per la regia di Fritz Lang.
Il “Deutschen Expressionismus” è morto, il cinema classico è morto, ma Lang è vivo. Sopravvive, quasi übermensch à la Friedrich Nietzsche, perfino nelle squallide mediocrità di un contemporaneo che non ha più voglia di una dialettica, ma si è convertito a un Capitale schiacciante, ma anche all’apparenza equanime, placido, confortevole. Lang è stato scelto da Jack Palance/Jerry Prokosch per dirigere l’Odissea perché è un tedesco, e fu un tedesco a scoprire le rovine di Troia. L’illusione del reale, della verità, può essere combattuta solo da una mitologia di immagini, da una catastrofe. Lo studio 6 di Cinecittà dal quale esce Palance per incontrare Piccoli all’inizio del film è già dimesso, distrutto. Sembra una reliquia del passato. Non ha vita.

Gli uomini hanno creato gli dei, secondo Prokosch, e non il contrario. Il cinema ha creato gli dei, quegli dei che Lang immortala statici, per poi dare carne e vita (e morte) a uomini e sirene, alla forse infedele Penelope. Cita Dante, Lang: “Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Cos’è il viver da bruti? C’è una divinità statica nell’immagine idolatra, e c’è una divinità carnale, come il nudo di Brigitte Bardot che segna uno degli innumerevoli incipit de Il disprezzo. Un film come già scritto, di continue partenze e arrivi impossibili. La fine è nota, e inevitabile. Perché è borghese. E c’è una logica di reiterazione nella società che non può essere sviata, non si può evitare. Non c’è uscita da quello. E se c’è uscita attraverso l’immagine deificata del cinema, è solo un’illusione. Perché anche il cinema è un atto del consumo. Anche il cinema è un percorso nelle stratificazioni del sistema. L’onestà non è nel sistema, ovviamente: è nel film, nella pellicola, in quell’intarsio di meccanica/scienza nel quale si congela l’istante per chiamarlo vita. L’onestà è in Lang, che nel 1933 attraversò il confine per evitare di dover lavorare al soldo del regime nazista. L’onestà non sarà mai in Prokosch, e non è appannaggio forse neanche di Paul Javal.
Javal vive di sovrastrutture borghesi: è colto, ma non ha cultura. Lang, che non ha illusioni sul suo ruolo e legge in modo semplice e diretto il testo millenario che dovrà tradurre in immagini, ne è l’esatto opposto.

Tradurre. Ogni personaggio, ne Il disprezzo, parla la propria lingua: si parla inglese, francese, tedesco, italiano. Giorgia Moll [2], che di lì a pochi anni abbandonerà il mondo del cinema, è il punto di legame. Traduce. Permette a sonorità, timbriche e ideologie diverse di comunicare. Dà al linguaggio il peso e la centralità che troppo spesso gli vengono negate.
È un film sul fallimento, Il disprezzo, un fallimento collettivo e privato, politico e culturale. Il classico è superato, e il cinema lo preserva senza essere compreso neanche da chi nel cinema investe – Prokosch punta a una riduzione di Omero, ma sa citare solo la Bibbia –; il contemporaneo è sciatto, e l’istinto alla sovversione è ridimensionato. Javal ha in tasca la tessera del Partito Comunista, ma non sa mai uscire da una dinamica in cui l’operaio deve ubbidire al padrone. La sua ribellione si riduce a una testarda rivendicazione di autorialità che non gli spetta, perché è solo sovrastrutturata, ma manca di verità. Il suo è un personaggio irrisolto, tragico più della stessa tragedia che dovrebbe prendere corpo sullo schermo e che non si fermerà di fronte a nulla, neanche all’ineluttabile. Parla al cinema e all’uomo, Godard, e non giudica le nevrosi borghesi di una coppia che non sa trovarsi al di fuori della sua composizione sociale. Lo fa con una nettezza che non gli viene quasi mai riconosciuta, lui regista che ragiona per sistemi per poterli poi decostruire, distruggere, annientare. Pur svelando senza troppi indugi la scarsa considerazione dell’opera di Moravia (“un volgare e grazioso romanzo da leggersi in treno”), non rinnega il suo intento a entrare nella psicologia di una coppia, e a “sentirne” lo struggimento. Ma non abdica alla necessità di allargare lo sguardo, come fa la macchina da presa quando sale a seguire un uomo su una scalinata, per raggiungere un panorama più vasto. E fare cinema.

NOTE
1. Un caso che divenne internazionale, sia per la fuga della coppia (Ponti era ancora sposato con la nobildonna reggiana Giuliana Fiastri, con la quale aveva avuto due figli), prima in Messico e quindi a Hollywood, prima che lo Stato italiano li considerasse “innocenti”, e che intervenisse in prima persona il presidente francese Georges Pompidou per concedere a Ponti il divorzio. Durante la parentesi hollywoodiana Ponti ebbe modo di produrre Orchidea nera di Martin Ritt, Quel tipo di donna di Sidney Lumet, Il diavolo in calzoncini rosa di George Cukor e Olympia di Michael Curtiz; tutti, ça va sans dire, con la Loren per protagonista…
2. Il personaggio di Giorgia Moll si chiama Francesca Vanini, probabile omaggio a Vanina Vanini, misconosciuto titolo della filmografia di Roberto Rossellini tratto da Stendhal un paio di anni prima e destinato, curiosa similitudine, a una vita turbolenta in fase di post-produzione.
Info
Il trailer de Il disprezzo.
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