Samuel in the Clouds
Vincitore del concorso dell’edizione 2017 del Trento Film Festival, Samuel in the Clouds racconta i cambiamenti climatici del pianeta attraverso la vita solitaria e ormai priva di senso di Samuel, un uomo che per tutta la vita ha gestito un impianto sciistico in Bolivia, dove ormai la neve non cade più e il ghiacciaio è scomparso.
La neve non abita più qui
I ghiacciai della Bolivia si stanno rapidamente ritirando e Samuel, l’anziano gestore della stazione sciistica del monte Chacaltaya in Bolivia, una delle più alte al mondo, deve confrontarsi quotidianamente con l’assenza di precipitazioni. Ogni giorno Samuel parte dal suo spettacolare rifugio per andare ad accogliere i turisti in arrivo da tutto il mondo e porta avanti la sua attività così come ha fatto per decenni. Nonostante le previsioni dei climatologi Samuel continua a sperare che a breve le precipitazioni torneranno a imbiancare la montagna. [sinossi]
Mettere in scena il riscaldamento globale attraverso una situazione di desolazione esistenziale. È quello che fa il regista belga Pieter Van Eecke con il documentario Samuel in the Clouds, vincitore dell’edizione 2017 del Trento Film Festival. Ci porta in Bolivia sul monte Chacaltaya, su una casetta dal tetto aguzzo, abbarbicata e isolata sulla sua cima. Era la stazione sciistica forse più alta del mondo, portata avanti da Samuel che aveva ereditato quel lavoro dal padre. Una casetta dove si intravede sbiadita la scritta della Coca Cola, da cui parte uno skilift inutilizzato, un’altra cattedrale nel deserto. Ora l’uomo si aggira come un fantasma, beve il mate con gli amici, accoglie i turisti, guarda solitario il paesaggio senza più neanche un punto bianco dalla finestra sporgente di quella piccola abitazione rossa che volge a un precipizio. Paesaggi in campo lunghissimo dove un pullman diventa un puntino che si muove in quelle stradine serpentiformi fatte di infiniti tornanti. Fino ad arrivare a quel brulicare di luci di La Paz, a quell’immensa distesa metropolitana che va su e giù.
Sono due le immagini di neve in Samuel in the Clouds, quasi degli inserti onirici dove il nevischio cade copioso sul terreno che diventa fanghiglia. E su quel bianco si stagliano uomini e donne dai vestiti colorati tradizionali, intenti in feste e ritualità con sacrifici animali. Il bianco della neve diventa esso stesso un qualcosa di folkloristico. Né pare avere più successo lo scienziato con il suo patetico lavoro di catturare l’aria in sacchi di plastica. Non c’è speranza, dice, il cambiamento è ormai irreversibile, possiamo solo cercare di contenerne gli effetti.
Pieter Van Eecke inserisce due fugaci momenti didattici, oltre alla dichiarazione dello scienziato da cui trapela comunque tristezza – anche se per lui una montagna vale l’altra, in Kenya come in Bolivia – a un attonito Samuel che si ostina a credere che la scienza troverà il rimedio. C’è poi una trasmissione radiofonica che fa predizioni apocalittiche, disastri naturali, carestie, guerre. Il regista in modo subliminale inquadra anche il grosso nocciolo del problema. Il cambiamento climatico generato dall’opulenza energetica dei paesi ricchi provocherà danni a quei popoli più fragili, dalla natura già friabile, che nessuna responsabilità, o quasi, hanno. E non basta purtroppo eleggere Evo Morales, il nuovo Davide che deve far fronte ai Golia del mondo. E nemmeno invertire il movimento delle lancette negli orologi pubblici, a simboleggiare il percorso verso la decolonizzazione. La scritta della Coca Cola, per quanto sbiadita, si intravede sempre.
In tutto questo contesto, Samuel in the Clouds è un film poetico, dove aleggia lo spirito della montagna circondato da cumuli e cirri. Dove forte è un senso di morte, vedi la scena al cimitero, una morte incombente, quella dell’anziano Samuel che è anche quella di una società tradizionale destinata a soccombere nel cataclisma ecologico del pianeta.