Tootsie

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Tootsie di Sydney Pollack, una delle migliori commedie prodotte a Hollywood, non segna solo il punto di incontro tra i pensieri sovversivi della New Hollywood e il pubblico degli anni Ottanta, ma nel cuore dell’ottimismo reaganiano centra l’attenzione sui modi – sempre coercitivi e preordinati – con cui al femminile è concessa l’espressione di sé. Con un magistrale Dustin Hoffman.

”Ma Jeff lo sa?”

New York, primi anni Ottanta. Michael Dorsey è un bravo attore con un pessimo carattere e senza ingaggi da anni. Per campare fa il cameriere in un ristorante assieme al suo coinquilino Jeff, drammaturgo squattrinato, che ha terminato una pièce teatrale che Michael e la loro comune amica, Sandy, vorrebbero interpretare. Nessuno di loro ha i soldi per produrla. Un giorno Sandy chiede a Michael una mano per un provino televisivo: la fluviale soap opera “ospedaliera” Policlinico Southwest sta cercando un’attrice per il nuovo personaggio, Emily Kimberly, amministratrice della clinica. Il giorno del provino, dopo la bocciatura di Sandy, per caso Michael apprende che un altro attore è stato scelto al suo posto come protagonista di Servo di Scena a Broadway e va a protestare dal suo agente che gli aveva dato per certa la scrittura. Capendo che nessuno ha più intenzione di lavorare con lui, Michael ha un’illuminazione: tenterà il provino in Policlinico Southwest travestito da donna. Il suo piglio deciso fa colpo sulla produzione, che finisce per assegnare il ruolo di Emily a Michael. Anzi al suo alter ego femminile, l’attrice Dorothy Michaels. Che avrà un successo strepitoso… [sinossi]
“Sento che ho qualcosa di significativo da dire alle donne!
Sono stato un attore disoccupato per 20 anni:
so che cosa vuol dire stare vicino al telefono ad aspettare che suoni”

“Tootsie” – in italiano “cocca, tesorino, bambolina” – è il nomignolo con cui Ron (Dabney Coleman), il regista della soap Policlinico Southwest, chiama Dorothy Michaels (Dustin Hoffman) per affermare la propria mascolinità che, di fronte a lei, sente inspiegabilmente incrinata. Ron è in difficoltà con la nuova arrivata, poco malleabile, testarda e volitiva, ma soprattutto Ron non si capacita del fatto che Dorothy non sia minimamente attratta da lui, tombeur des femmes agognato da ogni attrice o aspirante tale. Con un nomignolo cerca quindi di rimpicciolirla, possederla, dominarla. Dorothy non è come le altre del cast. Non è come Julie (Jessica Lange, che per il film vinse un Oscar come non protagonista), la donna di Ron nonché “puttana dell’ospedale” come lei stessa auto-presenta il suo personaggio in Policlinico, un volto televisivo noto, molto bella e sexy, per nulla stupida, ma che sa anche stare al suo posto e accettarlo. Dorothy non è neppure come April (Geena Davis al suo esordio) una delle tante con cui Ron tradisce Julie, né come nessun’altra. Una differenza in effetti c’è: Dorothy Michaels è un uomo. Anche se nessuno ancora lo sa.
L’American Film Institute ha inserito Tootsie al secondo posto delle migliori commedie americane di tutti i tempi, preceduto dall’immarcescibile A qualcuno piace caldo che con il film di Sydney Pollack ha di certo in comune uno dei tormentoni del genere, ossia il travestitismo. In qualche modo anche Dustin Hoffman, ovvero l’attore Michael Dorsey, si finge donna per sopravvivere, magari non ai mitra della mafia, ma di certo all’inferno della disoccupazione. Nella New York dei sogni ambiziosi (Saranno famosi di Alan Parker è del 1980) e ancora impregnata del mito dell’Actor’s Studio – che Hoffman aveva frequentato e attorno a cui Pollack aveva gravitato (avendo però studiato recitazione alla scuola di Sanford Meisner, sempre a N.Y.) – Dorsey è uno che non ce la sta facendo per niente.

La riproposizione della rutilante screwball comedy si innesta così negli anni Ottanta delle magnifiche sorti e progressive (e reaganiane), quelle in cui “sei tu che crei le tue occasioni” (come dice Michael stesso a un collega), e capacità e talento fanno la differenza. Ma è davvero così? Uno dei pilastri fondamentali della screwball comedy, il confronto/scontro tra i sessi (in cui la donna è molto spesso un carattere deciso e soverchiante), si inserisce poi a sua volta in uno scenario mutato rispetto ai decenni precedenti: dopo le battaglie femministe la donna è “ovviamente” emancipata, consapevole della propria affettività, inserita nel lavoro e in grado di trattare l’uomo alla pari. Ma è davvero così? La genialità di Tootsie sta, per prima cosa, nel paragonare due “disagi”, o in addirittura due stati di minorità: quello di un disoccupato che non si è adattato ai molti cambiamenti del suo mestiere negli anni dei “vincenti” e delle produzioni televisive, e quello del femminile, un genere che si trova in realtà in mezzo al guado perché per primo stenta a “ritrovarsi” e rispettarsi, a superare schemi sclerotizzati, a innescare dinamiche paritarie tra i sessi che, solo a parole, si considerano scontate. A dimostrarlo, appunto, le protagoniste femminili: Julie, di cui si innamora il protagonista, ma che sta con Ron “che la tratta come fosse zero”, e la bravissima Teri Garr, ovvero Sandy, attrice e donna insicura che ci mette parecchio a infuriarsi per i continui “bidoni” che proprio Michael – da uomo – le rifila. L’intuizione geniale di Tootsie è creare un’analogia tra due condizioni deboli: quella dei lavoratori e quella delle femmine, entrambi costretti a quotidiani mascheramenti (per poter competere o guadagnare posizioni, ma rispondendo in ogni caso alle aspettative degli altri), raccontando quanto sia difficile essere adeguati ai nuovi, grandiosi, orizzonti performativi che investono tutti, nei favolosi anni Ottanta newyorkesi.

Se questi sono alcuni dei sagaci temi, la riuscita del film è dovuta soprattutto a una sceneggiatura a prova di bomba (che il grande Sydney Pollack dirige mettendosi elegantemente “a servizio”): dalla solida costruzione dei conflitti, alla progressione incalzante delle sequenze fino ai dialoghi spumeggianti, non c’è nulla che sia meno che eccellente. Lo script, sottoposto a quanto risulta a una ventina di revisioni, è firmato da Larry Gelbart (veterano della scrittura comica televisiva che ha lavorato con Bob Hope, Danny Kaye e sviluppato la serie tv M.A.S.H.) e dall’autore televisivo e teatrale Murray Schisgal; non accreditati hanno collaborato Elaine May (la brillante regista di È ricca la sposo e l’ammazzo) e il regista Barry Levinson. Le dinamiche dell’intreccio traggono spunto, ovviamente, dalla doppiezza del protagonista, uomo e donna al tempo stesso, sviluppando una commedia degli equivoci che porta inevitabilmente a un ingarbugliarsi così parossistico degli eventi da rendere il disvelamento finale l’unico modo per sciogliere i nodi della vicenda principale e delle sottotrame. Lo script è puntellato da una profusione di battute sui generi e i rapporti tra i sessi che, messi in fila, basterebbero da soli a fornire la tessitura narrativa. “Sono una donna, non la madre di Felicia, non la moglie di Kevin” è la battuta pronunciata, ancora sui titoli di testa, a un provino a cui Michael tenta, invano, di passare, mentre la prima battuta cui Dorothy Michaels deve rispondere nella serie tv è “Lei non ha un uomo, e perciò si comporta come un uomo”, solo per fare un esempio dei continui riferimenti all’oggetto principale di riflessione, presente anche quando non è palesato nella narrazione. La scrittura dei personaggi, che si incastrano gli uni negli altri grazie a idiosincrasie e debolezze complementari, genera tutti i possibili circuiti e cortocircuiti del caso, configurando variegate opzioni dei rapporti tra i sessi e dei modelli sociali di riferimento.

Michael, nella Grande Mela del successo, non è un uomo arrivato. Non lo è nel lavoro, non ha una compagna e vive con un altro squattrinato come lui, il commediografo Jeff (un meraviglioso, grandissimo Bill Murray). Pur di fare l’attore – per campare fa il cameriere in un ristorante – si è prestato anche a impersonare un pomodoro per uno spot televisivo. Lui e i suoi amici sono insomma dei perdenti, in netta antitesi con l’ideologia imperante di quegli anni, quando tutti possono e devono farcela. Al grido di “Nessuno fa i vegetali come me!”, urlato di fronte al suo agente George Fields (Sydney Pollack) che gli sta dicendo che nessuno lo vuole scritturare, Michael inizia a pensare di poter riuscire nel suo travestimento più spericolato. Non un cetriolo o un pomodoro ma una donna. Così Michael diventa Dorothy e di lì a breve addirittura un modello per milioni di telespettatrici. Folgorato dalle scoperte più semplici, come l’importanza degli abiti e l’abnegazione richiesta per essere graziose (“quelle donne erano come animali… C’era una bella borsa ai saldi: ho avuto paura di battermi per quella”), Michael/Dorothy si rende ben presto conto che la vera sfida si gioca su altri terreni. Come evitare di essere molestato/a dal veterano della serie tv John Van Horn (George Gaynes), tenere testa a Ron, non essere trattata come un essere subordinato e debole. Da uomo decide di far esprimere alla “sua” Dorothy – che ha il vantaggio di non risultare particolarmente attraente – una fierezza e una libertà che le donne attorno a lui non hanno ma cui aspirerebbero. Sul lavoro cambia le battute della soap senza patteggiare con nessuno per fornire al pubblico modelli più evoluti del femminile (come quando, di fronte a una donna allettata perché picchiata dal marito, si rifiuta di pronunciare la riga del copione che consigliava alla malmenata di fare psicoterapia e le dice di denunciarlo), mentre il suo modello di coraggio e autodeterminazione che non abdica alla femminilità (essere carina gli/le piace davvero) le fa guadagnare le copertine dei settimanali.

Michael Dorsey ha costruito una donna a tutto tondo, raggiungendo una fama che da uomo non aveva mai intravvisto, ma si mette in fretta nei guai per la sua doppia vita. È infatti sempre un uomo per Sandy, l’amica con cui per un equivoco imbastisce una goffissima relazione, così come per Jeff e per il suo agente George, gli unici – non a caso due uomini – a conoscenza della sua doppia identità. Ed è nei dialoghi con Jeff e George che, potendo mettere tutte le carte in tavola, arrivano i momenti più esilaranti (imperdibile la citazione wylderiana stampata sulla faccia sognante di Pollack all’annuncio che Dorothy ha ricevuto un diamante di fidanzamento). Sandy, che è stata scartata proprio per la parte che Michael ha ottenuto, non sa la verità (“Cosa dico a Sandy? Se dico che hanno preso un uomo al suo posto si suicida al prossimo compleanno”) e Michael, da uomo, la inganna, le rifila un sacco di balle e la tratta probabilmente come ha fatto altre volte con altre donne. Diverso lo scenario che coinvolge tutti coloro che ignorano che Dorothy sia un uomo. Se Ron, come già detto, vuole essere desiderato ma è pure preoccupato dell’influenza di Dorothy su Julie, e se Van Horn salta letteralmente addosso alla povera Dorothy, il padre di Julie (Charles Durning) le propone addirittura di sposarlo. Ma Dorothy/Michael è innamorato di Julie. Ed è questo, a ben vedere, a far maturare in lui una coscienza che va oltre alla necessità di interpretare una donna forte come tutti vorrebbero la donna degli anni Ottanta. L’amore per Julie, che rende Julie oggetto della sua attenzione, gli fa capire quanto sia complicato muoversi in un mondo ancora ampiamente dominato dal maschile, quanto le donne stiano ancora cercando la propria dimensione, il proprio riconoscimento e un modo di affermare la propria identità senza dover temere la solitudine affettiva.
Di certo solo un uomo – in questo caso non perché in posizione di dominio, ma perché solo transitoriamente donna – può interpretare senza conflitti l’ennesima parte che l’epoca ha furbescamente assegnato al femminile, per autoassolversi con un’immagine di parità piena e realizzata. Niente di più falso, sembra ribadire continuamente il film. Così come falsa e ideologica è l’America del successo per tutti, ugualmente è fittizia la parità raggiunta tra i generi. Come da tradizione, infine, il conflitto (quello identitario di Michael e quello conseguente al non potersi dichiarare alla donna amata…di cui si è “cara amica”) scompaginerà gli equilibri precari, porterà alla soluzione e farà evolvere il protagonista. Ma anche Julie. Frequentando Dorothy e vedendo una donna così poco compiacente con le ipocrisie del maschile, ma non arcigna e castratrice (non una zitella acida come la vecchia governante che fa capolino in una scena), Julie diventa più sicura di sé, non più disposta a tollerare i tradimenti di Ron o a girare la testa dall’altra parte (“Tu mi hai influenzato. Tu non avresti mai tradito i tuoi sentimenti come faccio io. Sento di meritare qualcosa di più. Vivrò lo stesso… Non con allegria ma con onestà”, dice a Dorothy). Sia Sandy che Julie sono, ognuna a modo proprio, donne che sanno di essere libere, ma nelle quali prevale l’antica abitudine dell’accoglienza materna, dell’essere “a disposizione” dell’altro, pronte al perdono, e la sensazione di essere deficitarie senza un uomo accanto.

La ricerca di connessioni interiori, di emozioni o vissuti personali per poter capire e interpretare un personaggio, è implicata sia nel metodo Stanislavskij che nella scuola di Lee Strasberg (evocata in Tootsie) seppur con declinazioni differenti: questa ricerca interiore è simile a quella che può farci aderire agli altri fino a creare una comprensione tra i generi. “C’è una donna in me e sento che ho qualcosa di significativo da dire alle donne: sono stato un attore disoccupato per 20 anni… So che cosa vuol dire stare vicino al telefono ad aspettare che suoni! Se potessi comunicare queste esperienze ad altre donne come me…”, dice Michael al suo agente. Usando “il metodo”, la prima molla, per Michael, è la consonanza tra l’attesa dell’uomo assente e l’attesa del lavoro che manca. Capendo questo, crea un carattere di donna che parte dall’esperienza terrorizzante di non essere voluti per quello che si è: il disoccupato, come la donna, è debole, e per farcela deve ingegnarsi e camuffarsi, essere attraente per chi offre lavoro o per un uomo. Ma nell’intuitivo incontro tra le due condizioni c’è anche l’indicazione di un’alternativa, quella di trovare punti di vicinanza tra “oggetti” apparentemente non avvicinabili. “Sono stato un uomo migliore con te come donna di quanto lo sia stato con le altre donne come uomo. Devo solo riuscire a esserlo senza gonna”, conclude Michael di fronte a Julie. Rivisto oggi, nei tempi delle denunce delle attrici a Hollywood ma pure in tempi difficilissimi per tutto il mondo del lavoro (maschi inclusi) il film appare meditato e al tempo stesso semplice: non basta “dire” che abbiamo tutti le stesse opportunità per averle realmente. Serve un riconoscimento dei ruoli che mettiamo in atto, coscienza delle strategie che utilizziamo per non finire soli e abbandonati, dei mascheramenti per aderire alle aspettative degli altri e infine un grande sforzo per mettersi nei panni del prossimo. Così il film consegna un impopolare (almeno sembrerebbe, al momento) ma inequivocabile messaggio: solo divenendo donna l’uomo è capace di un rapporto paritario, solo prendendo coscienza di essere conformata a una visione maschile (e di accettarlo, fingendo magari sia naturale) la donna diventa capace di autentica scelta.

Cast eccellente, attori in stato di grazia, sceneggiatura di ferro, Tootsie è un gioiello intramontabile nella filmografia di Sydney Pollack, grande regista della New Hollywood (e che qui ancora una volta mostra di essere anche un notevole interprete, come lo è poi in Mariti e mogli di Woody Allen o in Eyes Wide Shut di Stanely Kubrick) che si cimenta con i codici della commedia hollywoodiana degli anni d’oro aggiornandoli con grazia e raffinatezza. Ma soprattutto riesce a coniugare con una regia fluida e costruita sulla narrazione lo spirito sovversivo degli anni Settanta con il rinnovato rapporto tra pubblico e autori proprio del decennio appena iniziato. Clamoroso successo al botteghino (secondo non a caso, quell’anno, solo a E.T. di Steven Spielberg), il film fu candidato anche a 10 Oscar, tra cui miglior film (vinse Gandhi) e regia, ma solo la Lange ottenne la statuetta (per cui erano in corsa anche Hoffman e la Garr).

Info
Il trailer di Tootsie.
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