The Bride with White Hair

The Bride with White Hair

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A distanza di venticinque anni dalla sua realizzazione The Bride with White Hair non solo si conferma come il tassello più lucente della filmografia di Ronny Yu, ma anche come uno dei migliori punti d’incontro tra il racconto di cavalieri erranti e il mélo amoroso. Al Far East 2018 nell’omaggio a Brigitte Lin.

Quando sbocceranno i fiori?

Zhuo Yihang viene cresciuto dai monaci taoisti per diventare uno spadaccino. Gli viene affidato il comando di una coalizione che vede insieme gli otto maggiori gruppi che perseguono l’ortodossia delle arti marziali, e che si difendono dalla proliferazione di un culto maligno. Durante una battaglia contro i miliziani del culto, Zhuo YIhang incontra una giovane donna di nome Lian Nichang e se ne innamora. Lei è un’organa ed è stata cresciuta dai lupi prima di venire adottata da Ji Wushuang, due gemelli siamesi di sesso opposto che guidano il culto. In seguito alla loro storia d’amore Lian Nichang decide di abbandonare il culto e seguire il suo amato con l’obiettivo di vivere una vita ordinaria al di fuori del mondo delle arti marziali. Ma… [sinossi]

The Bride with White Hair, che il Far East Film Festival di Udine ha proiettato al cinema Visionario in occasione dell’omaggio alla superdiva Brigitte Lin (insieme a Cloud of Romance di Chen Hung-lieh, Red Dust di Yim Ho, Outside the Window di Sung Tsun-shou e Yok Teng-heung, Dragon Inn di Raymond Lee e ovviamente Hong Kong Express di Wong Kar-wai), ha venticinque anni ma sembra provenire da un’epoca lontana. Lontana almeno quanto i luoghi sacri della Cina medioevale, lontana come la montagna in cui si rifugia in eremitica prospettiva lo Zhuo Yihang interpretato da uno splendido Leslie Cheung, lontana come Hong Kong, quella città-stato che ancora esiste ma che non esiste più. “Un paese due sistemi”, sentenziò Deng Xiaoping quasi quarant’anni fa. Ma il sistema cinese, dopo l’handover del 1997, ha progressivamente eroso ogni sintomo creativo hongkonghese. Ci sono registi che letteralmente resistono, come Tsui Hark, Johnnie To o Fruit Chan, ma la verità si fa sempre più evidente anno dopo anno: il cinema di Hong Kong, quel miracolo produttivo che rivoluzionò l’universo cinefilo, invadendo in modo prolifico il senso dell’immaginario e allargando la visuale, arranca e non si vede in che modo potrebbe uscire dalla tomba che il sistema gli ha scavato. Anche per questo Manhunt di John Woo, visto in chiusura all’ultima Mostra di Venezia, avrebbe meritato un trattamento diverso rispetto a quello ricevuto. L’impressione è che il grido di allarme di Hong Kong, che attraverso spiragli sempre più stretti la nazione lancia arrivi soffocato, e si finisca per non farci più caso. Anche per questo ammirare di nuovo sul grande schermo i classici del cinema hongkonghese da un lato appaga lo sguardo, ma dall’altro trafigge l’occhio e il cuore dei cinefili. Quell’immaginario non tornerà mai più. I cavalieri erranti, come i film di cappa e spada occidentali, abbandonano la lotta, sostituiti da copie carbone che solo all’apparenza si muovono nella medesima direzione, ma in realtà abusano di CGI, seguono l’ortodossia statale, non cercano di schivare in nessun modo il già visto.

Ronny Yu è sempre stato un regista ondivago, in grado di far dialogare nella sua filmografia The Postman Strikes Back e Legacy of Rage, China White e Mummy Dearest; The Bride with White Hair, oltre a rappresentare l’apice artistico e commerciale della sua carriera, gli aprì le porte di Hollywood, dove approdò per dirigere dapprima l’ibrido sino-americano Warriors of Virtue e di seguito La sposa di Chucky, Codice 51 e Freddy vs. Jason. Quindi, con la Cina alla conquista dei mercati internazionali, ecco il ritorno in patria con Fearless e Saving General Yang, presentato nel 2013 proprio a Udine…
The Bride with White Hair, che riprende lo schema classico del wuxia per legarlo al melodramma amoroso non lontano dall’ispirazione shakespeariana di Giulietta e Romeo, è ancora lontano dall’handover, per quanto sia di fatto in atto da oltre dieci anni e l’arrivo sia previsto nel 1997, appena quattro anni dopo la realizzazione del film. Ma Yu volge lo sguardo indietro nel tempo, non solo per l’ambientazione del film, ma per il senso che deve acquistare. Lo Stato, il potere centrale gestito da tutti i clan, viene combattuto in una forma ancora anarchica, figlia dello spaghetti-western, e la “sposa” (come sarà per la Beatrix Kiddo di Kill Bill, dittico che non a caso guarda molto al cinema popolare italiano e hongkonghese) si muove attraversata da una rabbia primigenia, che le consente lo sterminio dell’avversario, anche se forse non la riconciliazione con sé, e con il proprio desiderio.

Il furore della battaglia, che di lì a un paio di anni troverà una delle sue massime realizzazioni nel sublime The Blade di Tsui Hark, si trasfigura in una rappresentazione tra il mitologico e il fiabesco; lo schermo, quasi si tornasse alla scenografia appiattita del fondo teatrale, è immerso in una fotografia bluastra, cui si contrappongono elementi cromatici densi di forza simbolica, come i petali di fiore che fungono d’addestramento per il giovane spadaccino. Yu ricorre alla silhouette, ma non sprofonda il suo The Bride with White Hair nel nero della notte. Si vive dunque quest’avventura d’amore e morte e disperazione in un’atmosfera sospesa, fatale e screziata di un’aura magica. Nella concretezza post-Muro di Berlino degli anni Novanta, che già preparano il campo agli sconvolgimenti geopolitici tutt’ora in atto e alla definitiva presa del potere del sistema capitalista e neoliberista, Yu drappeggia un’elegia impregnata di onirismo, vagheggiando il sogno come fuga da una realtà crudele e mostruosa, in cui il potere si mostra nella sua innata forma bicefala e bi-sessuale – Ji Wushuang, a capo del culto maligno e che il padre e madre adottivi di Brigitte Lin, sono due gemelli siamesi tenuti insieme per la schiena.
Quel che ne viene fuori è un wuxia sognante e disperato, destinato a dominare il botteghino hongkonghese – al punto che un anno dopo arrivò il sequel nelle sale, prodotto da Yu e diretto da David Wu, e che chiude idealmente la saga, lasciata volutamente aperta in questo primo capitolo, anche in osservanza delle regole non scritte del genere – e a trovare adepti anche in occidente. Venticinque anni dopo la sua forza è ancora intatta, e nell’ammirarlo non si può evitare di essere sopraffatti dal magone.

Info
Il trailer di The Bride with White Hair.
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