L’angelo del crimine

L’angelo del crimine

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Con L’angelo del crimine il regista argentino Luis Ortega narra le gesta criminali del giovanissimo serial killer Carlos Robledo Puch, che all’inizio degli anni Settanta insanguinò le cronache di Buenos Aires. Al Noir di Milano e Como i due protagonisti sono stati proclamati migliori attori.

L’angelo sterminatore

Buenos Aires, 1971. Carlitos ha diciassette anni, riccioli biondi, una faccia d’angelo e una spavalderia da stella del cinema. Sin da piccolo ha sempre desiderato le cose degli altri, ma è solo da adolescente che la sua naturale inclinazione al furto si rivela. Quando incontra Ramon a scuola, Carlitos è immediatamente attratto da lui e fa di tutto per mettersi in mostra. Insieme intraprendono un viaggio alla scoperta dell’amore e del crimine. Soprannominato “l’Angelo della Morte” per l’aspetto innocente, il contrasto tra la bellezza angelicata e l’efferatezza dei suoi crimini lo rende oggetto di un’attenzione mediatica enorme che ne fa in poco tempo una celebrità. [sinossi]

El Ángel, l’angelo, è Carlos Robledo Puch, che a neanche venti anni terrorizzò l’Argentina con i suoi delitti, i suoi stupri, le sue rapine spesso destinate a sfociare nel sangue. Neanche venti anni lui e la stessa età per il principale dei complici, quel Jorge Antonio Ibañez che nella finzione scenica si trasforma in Ramon. Sì, perché la storia narrata in El Ángel (in italiano L’angelo del crimine), presentato in concorso al Noir in Festival di Milano e Como (nello specifico la proiezione si è tenuta nel Teatro Sociale della città lariana) dopo essere stato selezionato lo scorso maggio a Cannes in Un certain regard, trae ispirazione diretta dalla verità storica. Nel corso degli ultimi anni il cinema argentino sta cercando di fare i conti col proprio passato liberticida prendendo a spunto il racconto gangsteristico, il noir. Il romanzo nero come contraltare di una realtà ancor più nera. Nulla di nuovo, in fin dei conti, valse per la Hollywood proibizionista come per il poliziottesco che sorgeva nel bel mezzo degli anni di piombo. Così il nuovo lungometraggio da regista del trentottenne Luis Ortega – suo l’apprezzato in patria Historia de un clan, serie televisiva incentrata sulla “Famiglia Puccio”, protagonista anche de Il clan di Pablo Trapero – si inserisce in uno scenario ampio, in cui gli anni Settanta e Ottanta vengono riletti attraverso i codici del genere. In qualche modo, oltre al già citato film di Trapero, potrebbe rientrare in un panorama siffatto anche il fluviale La Flor di Mariano Llinás, visto a Locarno e poi rivisto a Torino.

Che il metro di paragone scelto da Ortega sia il cinema statunitense è reso evidente dalla scelta compiuta nella bella e articolata colonna sonora: non solo classici del rock e del folk riletti in lingua spagnola, come House of the Rising Sun nella versione degli Animals che diventa La Casa del Sol Naciente per mano e voce di Palito Ortega – padre del cineasta e vero e proprio mattatore della musica e del cinema argentini a partire dagli anni Sessanta – ma anche uno dei simboli imperituri della New York più marginale, Moondog, il geniale compositore cieco che si esibì per decenni come artista di strada sulla 6° Avenue e che era facilmente riconoscibile nel suo vestito da vichingo. È biondo come un vichingo anche Carlitos, e il sguardo d’angioletto non può che produrre istinti materni – anche se la madre del suo compare gli si propone, salvo sentirsi rispondere “preferisco tuo marito”. È un marginale per scelta, e la sua brillantezza intellettuale la mette al servizio esclusivo del crimine. Gli piace rubare, ed entra senza alcuna difficoltà o remora nella casa di sconosciuti per prendersi quel che lo attira. Ruba come gesto estetico. Uccide come gesto estetico, come estensione naturale della sua indole. Non ha freni. Non ha morale, per quanto si rifiuti di rubare in casa dell’unico uomo che gli chiede esplicitamente di non farlo.

Ortega regge il suo film, in modo abbastanza prevedibile, sul filo del paradosso, giocando con il surrealismo quasi inevitabile di quegli atti criminali così brutali eppur non premeditati, perfino logici una volta che si è scelto di sprofondare nel mood del film. In quella “logica” risiede in qualche modo anche il racconto di un’Argentina caduta nel baratro della dittatura militare. Mentre si svolgono i fatti narrati in L’angelo del crimine sullo scranno presidenziale siede Alejandro Agustín Lanusse, l’ultimo militare dell’autoproclamata “rivoluzione argentina” prima del breve – brevissimo, giusto un paio di anni – ritorno alla democrazia. Ortega sfrutta la storia di Puch, la smentita clamorosa dell’annoso e deprecabile presupposto lombrosiano che l’aspetto faccia la morale della persona, per tentare un racconto nero (e per lo più di superficie, in ogni caso) sugli abissi nei quali può sprofondare una nazione. Un film sul rapporto tra la quotidianità e l’atto criminale, reso sempre più stretto da una giustizia gestita dalla polizia. L’unica preoccupazione dei poliziotti quando fermano a bordo di una macchina rubata i due ragazzi è capire se si tratta di militanti dei montoneros. Il resto è vita, null’altro che gestione della propria e dell’altrui vita. A risaltare, giustamente premiate al Noir, sono le interpretazioni di due figli d’arte, Lorenzo Ferro nella parte di Carlitos (suo padre è l’attore Rafael Ferro) e Chino Darín, il figlio di Ricardo, nella parte di Ramon. In un film che parla anche di figli che dirazzano scegliendo la cattiva strada – lastricata però di denaro – un dettaglio non poi così secondario…

Info
Il trailer de L’angelo del crimine.
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