French Cancan

French Cancan

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Opera del ritorno in Francia per Jean Renoir, French Cancan si delinea come una riflessione filosofico-esistenziale intorno al piacere dello spettacolo popolare. Opera totale, omaggio alla fondazione del Moulin Rouge, alla Francia di fine Ottocento e all’universale necessità d’illusione. In programma stasera alle 21 al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la rassegna su Renoir, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, Institut Français e La farfalla sul mirino.

Balla con Dioniso

Parigi, 1889. Tra Montmartre e Pigalle l’impresario Zizi Danglard si adopera per l’apertura di un grande tempio dell’intrattenimento di massa che dia piena visibilità anche al can-can, danza di origine popolare e considerata oscena. È la fondazione del Moulin Rouge, per la quale Danglard tenta di trasformare in ballerina anche Nini, un’umile lavandaia con una naturale predisposizione all’arte della danza. Nini scatena la gelosia della primadonna Lola, mentre si ritrova al centro degli interessi di tre corteggiatori: il fidanzato Paulo, il principe Alessandro e lo stesso Danglard… [sinossi]

French Cancan (1955) segna il ritorno di Jean Renoir in Francia. Per lui è il primo film francese dopo 15 anni di lontananza dalla patria, ed è anche uno sprofondamento nella storia del proprio paese, colto in un preciso momento di rottura culturale e impatto internazionale, di cui Renoir aveva respirato il clima in casa propria tramite la figura di suo padre Pierre-Auguste. Il film infatti s’incentra sulla vicenda della fondazione del Moulin Rouge, quel tempio dell’intrattenimento popolare che si staglia nella Parigi di fine Ottocento come esaltazione del piacere e del gioco. Per erigere un monumento cinematografico a un colosso della storia culturale francese Renoir sceglie innanzitutto la via del divertissement, cambiando il nome al suo protagonista (ispirato al vero Charles Zidler) e collocandolo al centro di una girandola d’affari e sentimenti che evoca immediate reminiscenze di una grande tradizione teatrale autoctona (da Marivaux in giù).
Benché annunciata nei titoli come “Comédie Musicale”, French Cancan sembra anche profilarsi come un tentativo di opera totale in forma di cinema, mirata ad assemblare in sé le incarnazioni più diverse di spettacolo. Perché, in senso lato, come è stato per l’appena precedente La carrozza d’oro (1952), French Cancan è sopra ogni cosa una gioiosa celebrazione dell’arte e dello spettacolo popolare, delle sue lusinghe e delle sue inevitabili compromissioni, individuali e collettive. Renoir esordisce con una lunga introduzione al racconto in cui i protagonisti della vicenda si mescolano in un’indistinta massa di figure umane, inquadrate negli interminabili piaceri danzanti di una notte parigina. È la messa in quadro di un’epoca, della sua etica e dei suoi comportamenti: una messa in quadro al contempo “grande” e frammentaria, che evoca uno scenario da èpos nazionale ma depotenziandolo con precisa intenzione nelle scelte estetiche e narrative.

Della fondazione del Moulin Rouge, sineddoche di un più ampio apice nazionale in fatto di produzione artistica ed esplosione del piacere, Renoir reinventa infatti volti e personaggi, ritagliando un consueto gioco di amori e seduzioni avvitate per lo più intorno a Nini, lavandaia aspirante ballerina messa al centro di un trittico di corteggiatori (stessa struttura narrativa, a ben vedere, sulla quale s’innestava pure La carrozza d’oro). I personaggi principali così individuati si stagliano su un più ampio quadro di figure umane che sfumano dal tutto tondo verso il bozzetto, tutti alle prese con piccoli grandi eventi quotidiani, ben lontani dall’esaltazione acritica e aprioristica della fondazione di un mito nazionale. Pure il diretto omaggio a figure storiche che hanno animato lo spettacolo parigino di fine Ottocento è risolto tramite una rapida sequenza a episodi, quasi extradiegetica, in cui volti del presente (tra i quali Edith Piaf) si calano nei panni dei loro predecessori artistici.
D’altro canto, sul piano stilistico Renoir opera ulteriormente per condurre il proprio racconto lontano dall’èpos, lavorando molto, come di consueto, nella composizione dell’inquadratura ma senza aderire mai alla vastità epica dei campi lunghi o lunghissimi (intervengono per lo più solo brevi inquadrature allargate sulla collina di Montmartre, ricostruita in studio, a segnare il tempo della costruzione del Moulin Rouge nelle sue fasi successive). La macchina da presa resta per lo più ferma, affidandosi primariamente alle risorse di un montaggio spesso rapido e molto frammentato, che più volte si scatena in ritmi narrativamente indiavolati.

È un’opera totale, French Cancan, che evoca scenari classicistici e sembra volersi ricondurre alle fonti primigenie dello spettacolo visivo. Muovendo da un intreccio sentimentale assolutamente elementare, Renoir evoca infatti scenari da teatro greco-antico, in cui recitazione, canto e danza si danno il cambio senza soluzione di continuità – non manca nemmeno il coro, incarnato con consapevolezza dal personaggio di Casimir e da altre figure che seguono e commentano le vicende da una caffetteria nei paraggi. Ma Renoir arricchisce ulteriormente questo braccio fortemente classicistico innestandovi altre forme di classicità di più recente acquisizione, e segnatamente in ambito di cinema. Così, il classico dà la mano al “modernistico”, e più o meno al centro del racconto si apre una lunga parentesi divertente ed esaltante di puro e semplice slapstick nella sequenza della rissa, estesa e articolata, caratterizzata da un montaggio virtuosistico nella sua rapidità. L’introduzione iniziale, dipanata tra lunghe danze, trova la sua speculare conclusione nell’ultima lunga sequenza che lascia spazio totale all’esplosione del cancan, manifestazione di una straripante vitalità, senza argini, isterica eppure gioiosa, che si abbevera alle fonti dell’energia più pagana e dionisiaca.

In tal senso risulta del tutto funzionale e decisiva la scelta di un intreccio semplicissimo. È lo stesso Renoir a dare indicazioni ben precise in tale direzione: «Il soggetto di French Cancan è decisamente infantile e altrettanto poco sorprendente di quello di un western. Mi sento sempre più attirato verso storie abbastanza deboli da lasciarmi libero di divertirmi a fare del ‘cinematografo’. […] Mi basta il gesto di una ragazza che aggiusta la sua chioma, o il respiro di una bella donna che dorme nuda sul suo letto, o un gatto che si stira». (1) Apprestandosi dunque a un progetto ben definito di ritorno alle risorse più elementari dello spettacolo cinematografico, Renoir riduce ai minimi termini la costruzione orizzontale di French Cancan concentrando gran parte del lavoro espressivo su alcuni elementi costitutivi (primordiali o di più recente acquisizione) del linguaggio-cinema: montaggio, colore e soprattutto profondità di campo.
Come già accade in La regola del gioco (1939) e nell’immediatamente precedente La carrozza d’oro, anche French Cancan mostra una costante funzionalizzazione di effetti di “quadro nel quadro”, rinvigorendo una riflessione tra vita e rappresentazione con evidenti esiti estetici di mise en abyme. In French Cancan è un gioco che s’instaura nella messa in quadro di elementi divisori (i vetri della lavanderia) e nel plurimo rifrangersi in profondità di linee geometriche ripetute ed effetti-sipario, che talvolta presentano azioni simultanee nel loro svolgersi su più piani visivi. Il culmine di tale gioco si avvera poi con l’inaugurazione del Moulin Rouge, introdotta dal numero degli zuavi ridotti pressoché a spettacolo modulare, ritmico e disumanizzato, ben memore dello spettacolo meccanico esibito dal personaggio di La Chesnaye in La regola del gioco. In tal senso risulta estremamente funzionale anche l’uso esclusivo di riprese in studio, dove gli elementi profilmici sono spesso esaltati sinteticamente nella loro caratura finzionale (i negozi, ad esempio, sono identificati tramite generiche e paradigmatiche insegne gigantesche: “Blanchisserie”, “Boulangerie”).

Come per La carrozza d’oro anche qui Renoir riflette sulla vita come grande spettacolo, come teatro di ruoli e apparenze. È forse una riflessione che nel caso di French Cancan si fa meno esplicita, meno ambigua e insistita rispetto a La carrozza d’oro, e che sposta il baricentro delle suggestioni verso un più conclamato piacere dell’arte e dello spettacolo. Se nel film precedente la vicenda di Camilla si chiude con una fuga nell’arte segnata da sentimenti ambigui, sul limite del tetro e della nostalgia per la vita, in French Cancan Nini (personaggio oggettivamente più debole rispetto al bel ritratto fornito da Anna Magnani) compie nel finale la stessa scelta, ma sprofondando irresistibilmente nell’adesione al piacere.
Nessuna ombra, nessuna nostalgia: la fuga nell’arte e nello spettacolo è convinta, totale e istintiva, tramite l’abbandono di immediate moralità derivate da convenzioni borghesi, capaci di penetrare anche negli strati poveri della società – Nini è una lavandaia, catapultata quasi per caso nel mondo della danza. A corroborare tale operazione interviene il contributo assolutamente prioritario del colore. Renoir torna a rievocare una fase storica del proprio paese in cui l’arte della pittura ha vissuto una fondamentale rivoluzione, nella quale Renoir padre ha ricoperto un ruolo primario.
Più volte French Cancan evoca esplicitamente reminiscenze pittoriche di chiara impronta impressionistica o postimpressionistica, fino alla diretta citazione, più debitrice dell’universo di Degas e di Toulouse-Lautrec che di Renoir padre. Qua e là ritroviamo incarnazioni di bevitrici d’assenzio, di stiratrici, di ballerine alla sbarra o colte nelle loro svestizioni e rivestizioni secondo le medesime linee oblique che caratterizzano le tele di riferimento, con qualche reminiscenza anche dalla cartellonistica d’epoca.

Non si tratta di puro e semplice gusto citazionistico, bensì di un corredo di suggestioni visive che concorrono a un preciso progetto filmico. Anche la rivoluzione impressionistica, del resto, ha costituito una prima riscoperta dell’arte come piacere. Nel cogliere frammenti di realtà urbana, spesso (ma non sempre) spogliati dell’intento di denuncia sociale, l’impressionismo ha avviato un processo di riforma dell’arte visiva che si è centrato sempre più sulla riflessione intorno ai propri medesimi strumenti di rappresentazione. Da quelle tele spira sempre, anche in quelle più drammatiche (L’assenzio, ad esempio), il piacere della registrazione di una vita cittadina, moderna e brulicante, sorretta a una riflessione pressoché scientifica intorno a luce, atmosfera e colore.
Di quello stesso piacere per l’arte sono intessuti French Cancan e la sua riflessione filosofico-esistenziale. Significativamente non è un film di veri conflitti. Anche le traversie sentimentali trovano sempre uno sbocco felice per tutti, in uno spirito di pura esaltazione del piacere dionisiaco. Per bocca del suo protagonista Danglard, l’apertura del Moulin Rouge si fonda su un’idea di democratizzazione del piacere. Alle masse popolari il Moulin Rouge non garantisce la gran vita, ma l’illusione della gran vita. È qui, forse, che French Cancan, dominato da un dilagante e irresistibile spirito di piacere, apre la sua nota più problematica: alle cupezze del finale di La carrozza d’oro Renoir qui risponde, in chiavi più morbide, tramite una problematizzazione dello spettacolo, delineandolo come un oppio non necessariamente proditorio, ma semplicemente necessario.

Nell’esigenza d’illusione è facile intravedere i fondamenti di una riflessione che dall’esplosione dello spettacolo popolare nella Francia di fine Ottocento si estende avanti e indietro sulla linea del tempo coinvolgendo in un’unica e immortale necessità umana gli albori della civiltà occidentale (il teatro greco-antico) e l’ultimo ritrovato di epoca moderna (il cinema). Il cinema stesso, del resto, ha ricoperto sin dagli inizi del Novecento il ruolo di dispensatore popolare di illusioni. In tal senso French Cancan rifugge volutamente dall’algida freddezza dello spettacolo “alto”. Scegliendo come soggetto del proprio film la rivitalizzazione di massa del can-can a fine Ottocento, danza considerata oscena e relegata al mondo popolare, Renoir ne reinventa la storia all’interno di uno spettacolo-cinema elegante ma che non disdegna ciò che a occhi borghesi è comunemente detto volgare. Ovunque in French Cancan la danza è esposizione oscena di carne e corpi, fin dalle prove delle ballerine. E in tale quadro di piacere godereccio e immediato assume ulteriore significato il saltuario ricorso a moduli cinematografici di immediata presa popolare – la lunga parentesi di slapstick al centro del racconto. Così, in ultima analisi French Cancan si profila come un atto d’amore per il proprio mestiere (è facile intravedere nel profilo di Danglard un doppio dello stesso Renoir) e per la gioia infusa al pubblico tramite il proprio mestiere. Più volte Danglard dichiara il pubblico come suo unico committente, in un reciproco rapporto di piacere. Il piacere, innanzitutto, pagano e viscerale, capace di abbattere anche gli steccati sociali. In quel breve frammento che è la vita.

Note
(1) La vita è cinema. Tutti gli scritti 1926-1971, pag. 295.
Info
La scheda di French Cancan sul sito del Palazzo delle Esposizioni.
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