Ore 10: calma piatta

Ore 10: calma piatta

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Film della suspense in spazio chiuso/apertissimo, l’australiano Ore 10: calma piatta di Phillip Noyce sembra aderire in superficie alle modalità del thriller americano anni Ottanta, ma si colloca in un territorio decisamente più enigmatico, sugli ambigui confini della dimensione onirica e/o intrapsichica per tentare riflessioni su assoluti culturali.

Mater Tenebrarum

Il comandante della marina John Ingram viene portato dalla polizia urgentemente in ospedale. Sua moglie Rae ha infatti avuto un incidente d’auto in cui loro figlio, ancora bambino, ha perso la vita. La coppia intraprende un viaggio in barca in mezzo all’Oceano Pacifico per riprendersi dal trauma del lutto, ma raccoglie a bordo uno strano tipo molto spaventato, Hughie Warriner, che dice di essere sopravvissuto a malapena all’affondamento della sua imbarcazione. Il ragazzo racconta che ha intrapreso una traversata del Pacifico in compagnia di altre cinque persone, e che queste sono tutte morte a seguito di un’intossicazione alimentare da salmone. Non troppo fiducioso, John rinchiude Hughie sottochiave e si avvia a fare una perlustrazione sulla barca del ragazzo che sta affondando lentamente nelle vicinanze. Rimasta sola sulla barca con Hughie, Rae scopre che suo marito ha qualche ragione a non fidarsi. A poco a poco Hughie si rivela infatti per un pericoloso psicopatico… [sinossi]

Anni Ottanta, è tempo di thriller dominante. Sul finire del decennio arriva dall’Australia, prodotto da George Miller, Ore 10: calma piatta (1989) di Phillip Noyce, e a una prima occhiata il film sembra allinearsi a una tendenza generale. Ancora una coppia, possibilmente in difficoltà, ancora uno sconosciuto psicopatico che minaccia l’integrità dei due e invade il loro spazio privato, ancora la coppia avviata in una lunga discesa verso la violenza per difendere la propria incolumità e il proprio territorio. In realtà il soggetto, ispirato molto liberamente a un romanzo di Charles Williams, si colloca in un solco un po’ diverso, che resta debitore verso le coeve pratiche thriller solo in parte e quasi in modo ininfluente. Il buon Noyce, che in seguito si disperderà purtroppo in una produzione hollywoodiana piuttosto anonima, si riallaccia infatti alla tradizione del racconto in luogo chiuso ma anche apertissimo, quella doppia e ambivalente angoscia tra claustrofobia e agorafobia data dall’unica ambientazione in mezzo al mare, dove gli spazi immensi intorno permetterebbero un orizzonte mentale di fuga ma questa è impedita dall’isolamento su barche più o meno a rischio di affondare. Una prima trasposizione dal romanzo di Williams fu progettata e in parte realizzata sulle coste jugoslave, tra il 1966 e il 1969, addirittura da Orson Welles sotto il titolo di The Deep, che tuttavia trovò poi problemi di postproduzione, non vide mai concluse le riprese e i negativi andarono perduti – a oggi se ne conservano solo due copie-lavoro, una in bianco e nero e una a colori. Per macroscopica struttura narrativa il film di Noyce richiama alla mente illustri predecessori come Prigionieri dell’oceano (Alfred Hitchcock, 1944) e Il coltello nell’acqua (Roman Polanski, 1962), così come tutto un breve filone del cinema italiano di fine anni Sessanta che vide tra i suoi esempi Interrabang (Giuliano Biagetti, 1969). Si tratta ovviamente di una macrocategoria che contiene al suo interno consistenti varianti estetiche, narrative e allegorico/metaforiche. Tuttavia la doppia angoscia del mare aperto, l’isolamento e la compressione di pochi personaggi su un’unica imbarcazione, costituiscono la necessaria premessa per un racconto che si muove innanzitutto sul sospetto, l’ambiguità, la caduta della fiducia tra le figure messe in gioco. Oltre, ovviamente, alla suspense della sopravvivenza in un ambiente tramutatosi improvvisamente in ostile pur sotto il sole più cocente e teoricamente rilassante.

Ulteriore tratto caratteristico di Ore 10: calma piatta è poi l’incipit al racconto, per molti un vero e proprio fuor d’opera rispetto al resto del film. John e Rae Ingram, la coppia protagonista, esordiscono infatti sulle note di un tragico trauma che funge da premessa. I due perdono un figlio ancora bambino a seguito di un incidente automobilistico mentre la madre Rae si trova alla guida. Tramite una brusca cesura ritroviamo poi i due intenti a elaborare l’indicibile lutto durante una solitaria crociera in mare sulla propria barca per un viaggio che il marito tiene a definire senza limiti di tempo. Nel successivo sviluppo della vicenda il lutto iniziale non ricopre specifiche funzioni narrative e a poco a poco sparisce letteralmente dal racconto. Vengono così a delinearsi due nuclei narrativi ben distinti e di disegualissima lunghezza: il lutto, raccontato in una decina di minuti, e tutta l’estesa vicenda in mare in cui John e Rae si trovano a doversi difendere da Hughie, un fascinoso psicopatico raccolto a bordo dopo un apparente naufragio in cui i suoi compagni di viaggio hanno perso la vita per un’intossicazione alimentare.

Sul piano della pura e semplice linearità di racconto la cesura tra i due nuclei narrativi è troppo brusca e incoerente per poterla considerare casuale – perché delineare un quadro di elaborazione del più terribile dei lutti per poi abbandonarlo immediatamente per strada? Le speculazioni possibili intorno a tale eccentrica costruzione narrativa sono potenzialmente infinite. Sicuramente Ore 10: calma piatta sposa le linee di un racconto talmente asciutto e tautologico da concedere vie di interpretazione fortemente intrapsichiche, le uniche capaci di tenere insieme l’incipit con lo svolgimento. Si è spinti in tale direzione dalla natura intensamente onirica dell’esordio, che assume tratti più accentuati nel flashback delirante nella memoria di Rae, ricoverata in ospedale, dove si rievoca l’incidente fatale in cui suo figlio ha perso la vita. Tuttavia il flashback platealmente onirico è a sua volta incastonato in un apparente racconto di “realtà” dove però intervengono di nuovo forti tratti sintetici e distorsivi, tali da far pensare a loro volta a una dimensione di incubo – il film si apre con un raffinato movimento di macchina grazie al quale una stazione si tramuta in teatro astratto dell’entrata in scena di John, fermato da poliziotti che intendono comunicargli la disgrazia avvenuta in macchina. Lo stesso ospedale in cui Rae è ricoverata si caratterizza per tratti di enfatico incubo. Dopo la brusca cesura, tutta la sezione in mare è poi introdotta in modo chiaro ed evidente dal risveglio angosciato di Rae sul letto, che affida al marito un resoconto onirico sul loro figlio perduto. Ma anche le successive vicende che coinvolgono lo psicopatico Hughie sono altrettanto astratte, sintetiche ed essenziali e confondono ulteriormente le acque. Qual è dunque la dimensione reale, e quale quella onirica? Che cos’è incubo e rispetto a quale piano di realtà (se c’è)? Malgrado l’insistita concretezza fotografica (a opera del Dean Semler di Mad Max) di tutta la seconda sezione di guerriglia fisica e psicologica sulla barca, Ore 10: calma piatta lascia volutamente un’enorme quantità di interrogativi sui suoi personaggi, in particolare su Hughie, invasore apparso dal nulla il cui pregresso non è particolarmente chiarito nemmeno dalle visite di John sulla barca dalla quale il ragazzo è fuggito – la barca, in procinto di affondare, pullula di cadaveri, ma quanto è accaduto è rievocato solo per brevi e incoerenti brani di video amatoriali trasmessi a bordo. Un’ipotesi suggestiva, che sembrerebbe suffragata da numerosi elementi narrativi ed estetici, può inquadrare la seconda parte come ulteriore proseguimento onirico del dramma vissuto dalla coppia in cui i due genitori, e in particolare la madre Rae, lottano contro una letterale personificazione del senso di colpa. Tralasciando i più diretti richiami della figura di Hughie alla dimensione infantile (è bizzoso, piagnucoloso, i video amatoriali evocano idealmente un orizzonte di difesa della propria prole dalle prevaricazioni degli altri…), è da rilevare infatti l’invincibile insistenza con la quale l’invasore si ripresenta a Rae, pressoché immortale e insopprimibile come il peggiore dei tarli della coscienza. Forse la domanda da porsi non è dunque da quale parte stia l’incubo e da quale l’oggettivo piano di realtà. In senso ancor più ampio il film di Noyce sembra delinearsi come una globale ricognizione, dalla prima inquadratura all’ultima, intorno all’indicibilità dei meandri più oscuri della psiche materna, in cui il terrore di far del male alla prole si combina alla ferocia della negazione nei confronti della colpa e del dolore. A volersi sbizzarrire in cerca di simboli, potremmo cominciare dal mare/madre/placenta fino alla barca/utero, senza tralasciare quel gioco tra gatto e topo che si instaura tra Rae e Hughie una volta rimasti soli a bordo, probabile battaglia madre/figlio in uno scenario ambivalente di affetto/repulsione e ricatto emotivo.

Questa non è altro che un’ipotesi, e Ore 10: calma piatta può essere tranquillamente fruito anche nella sua pura e semplice datità narrativa, accettando senza troppi dubbi che una coppia segnata dal lutto incappi pure in una seconda sfortuna a stretto giro incontrando un pazzo in mare. Non si può certo ridurre il cinema a un quesito enigmistico, che ridimensionerebbe la portata del film di Noyce a un puro indovinello. Resta comunque il fatto che con ogni evidenza le ambizioni sono ben più alte rispetto alla confezione di un consueto prodotto di consumo in linea con le coeve tendenze commerciali. Se da un lato il racconto si snoda su una fitta sequela di fatti in apparente assenza di qualsiasi doppio fondo, più in generale il racconto sceglie vie espressive di conclamata astrazione, riducendo al minimo i dialoghi e assumendo in modo crescente l’idea di racconto come pura scansione di dettagli, azioni e contromosse in cui ricorrono spesso anche distorsioni visive. Sappiamo poco degli Ingram, sappiamo pochissimo di Hughie, e non sappiamo nemmeno quanto e a che cosa credere di tutto ciò che riguarda l’invasore. In tale orizzonte di assoluta ambiguità Noyce costruisce un marchingegno narrativo fondato su una notevole gestione della suspense, che accusa qualche segno di stanchezza nella parte centrale e in tutto ciò che attiene i paralleli tentativi di John di raggiungere gli altri due. Vi è anche da riscontrare un costante humour nero, un ghigno cinico e tagliente che si fa più evidente in certi passaggi – il cane, trastullo per la povera borghese annoiata, che addestrato a riprendere la pallina in mare riporta la chiave a Hughie, ma soprattutto il finale, in cui Noyce dà vita a un effetto speciale talmente goffo da non poter essere che voluto (si tratta tuttavia di un secondo finale che il regista si trovò costretto a girare per volere della produzione, che esigeva una conclusione più univoca e indiscutibile della vicenda). A poco a poco, soprattutto, si trasforma in oggetto di humour nero la caparbietà sempre più violenta di Rae nel liberarsi di Hughie. Sul finale quello della donna è lo sguardo più trionfante e soddisfatto. Secondo tale lettura liberarsi di Hughie equivale a sbarazzarsi di un fardello che grava insostenibilmente sulla coscienza. Beffarda misoginia? Può darsi, ma di quella gustosa, che fa sogghignare intorno ad assoluti culturali.

Ore 10: calma piatta conserva dunque le premesse di un convenzionale film di consumo per delinearsi invece sul piano stilistico come un oggetto piuttosto raffinato, che cerca di utilizzare l’apparenza del genere mentre si dirige altrove. Sottopelle, sotto-mente, nell’incubo soffocante della maternità, spaventevole assunzione di responsabilità che soddisfa il desiderio di procreare ma al contempo spalanca insostenibili terrori.

Info
Il trailer originale di Ore 10: calma piatta.

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