L’uomo di Laramie

L’uomo di Laramie

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Quinto e ultimo western diretto da Anthony Mann con James Stewart come protagonista L’uomo di Laramie è un ambizioso affresco umano, che sposa l’epos della wilderness e il tema della vendetta e del vagare infinito nel west con la tragedia shakespeariana. Di una violenza inusitata per l’epoca, è anche il tentativo riuscito di allargare la visuale, spingendo il western classico verso la modernità, più nei temi che nel linguaggio.

I sogni proibiti del vecchio Waggoman

Per vendicare l’uccisione del fratello e scoprire chi vende fucili agli apache, il capitano Will Lockhart giunge a Coronado, nel New Mexico, dalla natia Laramie. Qui si trova a dover avere a che fare con il proprietario terriero Waggoman, prossimo alla cecità, il di lui figlio Dave e il futuro genero Vic. [sinossi]
Il tempo svellerà
ciò che l’astuzia nasconde tra le pieghe;
il tempo prima copre le colpe
ma infine le deride e le svergogna.
William Shakespeare, Re Lear
È il tuo collo, Lockhart.
Se vuoi un funerale cristiano
è meglio che lasci dei soldi
al becchino.
Da un dialogo de L’uomo di Laramie

La storia del Cinemascope, per quanto esaltante, è di breve durata e si sviluppa produttivamente nell’arco di meno di quindici anni: per quanto all’apparenza perfetto per il western non fu utilizzato da John Ford, che lavorò prevalentemente con la VistaVision, lo schermo panoramico messo in commercio dalla Paramount proprio per contrapporsi al Cinemascope, che era invece il cavallo di battaglia della 20th Century Fox. Dei cinque grandi western diretti da Anthony Mann con protagonista James Stewart L’uomo di Laramie è l’unico a far ricorso al Cinemascope: in tal senso basta l’inquadratura iniziale, con i carri trainati da cavalli che scorrono davanti a un dolce scenario collinare, per quanto brullo, per comprendere il potere immaginifico del rapporto 2,35:1. L’ampiezza dello sguardo e la profondità a essa connessa annichiliscono la visione, permettendo allo spettatore di immergersi ancora di più nella visione, sentendosi parte integrante di uno scenario magnifico, amplio, a perdita d’occhio. L’orizzonte su cui si apre L’uomo di Laramie è largo, esteso e disteso, apparentemente privo di confini reali: l’esatto opposto degli animi e delle psicologie dei personaggi del film, figure ossessive dominate dalla paura, dall’odio, dal desiderio di vendetta. Su questo contrasto si concentra da subito Mann, e questo conflitto tra interiorità dei personaggi ed esteriorità dominante della natura rappresenta la sfida che il regista statunitense si pone davanti. The Man from Laramie arriva sull’onda lunga di una collaborazione che ha segnato in profondità la storia del western, e il suo sviluppo: a partire da Winchester ’73 del 1950 Mann e Stewart hanno infatti girato insieme cinque film, i due già citati e Là dove scende il fiume, Lo sperone nudo, Terra lontana. A giudicare da quel che viene riportato dai biografi che si sono addentrati nella materia il rapporto tra i due si interruppe allorquando Mann si rifiutò di dirigere il western Passaggio di notte, adducendo come motivazione il fatto che la sceneggiatura fosse “spazzatura” e che Stewart volesse interpretare il ruolo del protagonista solo per poter sfoggiare la sua tecnica di fisarmonicista: pare che a seguito di questo diverbio i due non si siano più parlati. Quale che sia la verità il lustro che vide Mann e Stewart lavorare insieme può essere definito senza timore di esagerare “i cinque anni che sconvolsero la storia del western classico”. Per quanto la critica abbia da subito compreso il valore e l’importanza estetica, storica e produttiva della collaborazione tra regista e interprete, L’uomo di Laramie è stato spesso considerato l’episodio meno fortunato. E se è vero che rispetto alla compattezza granitica de Lo sperone nudo e Terra lontana la materia qui si fa più frammentata, è altrettanto vero che sono proprio gli svariati rivoli nei quali si disperde la trama principale a rappresentare il punto di forza di un’opera ambiziosa, che brama unire all’epos della wilderness – qui comunque già rivisto in un’ottica profondamente critica – la tragedia shakespeariana.

“Desideriamo ringraziare vivamente per la collaborazione la popolazione del New Mexico, dove questo film è stato girato”. Inizia così, con questa scritta, L’uomo di Laramie. Quella stessa popolazione, nella finzione del film, è considerata assai meno amichevole da Will Lockhart, che ha raggiunto lo Stato che i navajo chiama(va)no Yootó Hahoodzo e per i coloni era “Land of Enchantment” dalla natia Laramie, in Wyoming. Un viaggio di quasi novecento chilometri, con l’unico scopo di scoprire non chi ha ucciso il fratello – quello è un fatto noto, sono stati gli apache – ma chi ha venduto ai nativi l’arma utilizzata per l’omicidio. Fin dalla sua genesi la narrazione decide di evitare dunque la semplicità cui il western classico aveva abituato i suoi spettatori. La vendetta di Lockhart non ha niente a che vedere, nei fatti, con l’atto materiale – in una terra priva di stabilità la morte violenta può annidarsi dietro ogni angolo della strada –, ma ha un valore etico. Qualcuno si è arricchito, nella terra del Capitale, insanguinando malgré lui le strade: quel qualcuno è altrettanto, se non più colpevole, dell’assassino che ha premuto il grilletto. Un concetto che cozza in tutta evidenza con l’immediatezza del genere, il duello all’alba o al tramonto in cui chi è più rapido a estrarre la pistola dalla fondina vince, e distribuisce automaticamente giustizia. La vendetta è uno dei temi cardine del genere, e questo Mann lo sa bene, ma la sua visione – allargata come il Cinemascope – si muove in direzione inattese. Ecco ad esempio che il legame ideale con il Lear di Shakespeare fa capolino con forza, pur attualizzato in una cornice che non prevede dinastie reali, ma semmai famiglie padronali grazie alla gestione del potere economico. Più ancora di Lockhart, che ha un obiettivo fin troppo puro e può quindi godere di una certa bidimensionalità – per quanto non manchino sfumature persino coraggiose nell’utilizzo di ombreggiature tutt’altro che rassicuranti nella rappresentazione del personaggio – è attorno alla figura del patriarca Alec Waggoman che si costruisce l’aura tragica del film. Prossimo alla cecità, e quindi incapace di avere un orizzonte di fronte a sé, Waggoman è tormentato dagli incubi (presaghi di un futuro che non potrà che avverarsi). Tutti gli altri personaggi maschili possono essere considerati suoi figli: lo è anche geneticamente il debole e meschino Dave, con cui Waggoman però non si riconosce; lo è Vic, il fidanzato di sua figlia che l’uomo considera più affine a sé ma che si rivelerà altrettanto fallace; e lo è persino Lockhart, il fantasma del figlio ideale che Waggoman non ha mai avuto, e sempre bramato. Il suo regno non può essere spartito, perché è solo fittizio, relativo al commercio, alla capacità economica, alla ricchezza. Tutto è monetizzabile, nel Vecchio West, e la vita umana ha poco valore.

L’uomo di Laramie è il più umbratile dei cinque western che Mann girò con Stewart, e quello in cui l’immagine si fa necessariamente più esasperata, dall’utilizzo dei colori – l’unico titolo in bianco e nero della cinquina è Winchester ’73 – alla messa in scena della violenza. Prima di lui nessuno a Hollywood aveva tentato di esprimere con altrettanto furore la brutalità della corsa all’Ovest selvaggio: il dettaglio della pistola di Dave che prende di mira, da distanza estremamente ravvicinata, il palmo aperto di Lockhart dove piazzerà (nella logica della legge del taglione) un proiettile, e la seguente panoramica a seguire lo sparo che si ferma sul primo piano di Stewart prima terrorizzato e poi sfiancato dal dolore fisico è una delle immagini più rivoluzionarie del western, perché nega ogni respiro romantico del concetto di duello e si concentra non solo sulla brutalità, ma anche sulle conseguenze del gesto, sul dolore fisico. Pur partecipando ancora alla produzione classica del genere Mann si spinge di un decennio in avanti con lo sguardo, cogliendo la necessità di modernizzare non solo il linguaggio estetico – quello avviene solo in parte, la palingenesi del genere avrà bisogno, com’è notorio, di sciacquarsi i panni nelle acque del Mediterraneo – ma anche e soprattutto la psicologia e la morale dei suoi personaggi. Stewart non è John Wayne, il suo Lockhart vive di rodimenti interiori e di riflessioni sulla liceità del comportamento del singolo in un contesto sociale che nulla hanno a che vedere con la bicromia giusto/sbagliato su cui è costruita per lo più l’icona di Wayne – Sentieri selvaggi, è giusto sottolinearlo, arriverà solo un anno dopo L’uomo di Laramie. Certo, il suo spirito è animato di vendetta, ma questo desiderio non arriva mai ad accecarlo completamente, come dimostra il fatto che non sia in grado di sparare a sangue freddo a Vic, pur avendolo scoperto colpevole della vendita di armi agli apache: ciononostante, permeata com’è la narrazione del pensiero tragico, non ci sarà comunque scampo per il “cattivo”, ucciso proprio da uno dei fucili che ha venduto ai nativi.

Alla ridondanza dei temi e delle situazioni Mann risponde con una regia secca, netta, priva di qualsivoglia compiacimento o birignao. Il suo sguardo non è piano come l’orizzonte, ma allo stesso tempo è in perenne movimento, come quella terra di conquista che non consente stabilità, non prevede norma, non sa uscire dallo schema di morte, tradimento e vendetta che ha disegnato nel corso del tempo. Pur avendo un punto di partenza delineato fin dal titolo (Laramie), e nonostante sia un capitano dell’esercito, Lockhart è un viandante, un vagabondo alla ricerca di una terra forse promessa, di certo sognata – come gli incubi di Waggoman. Non a caso afferma “Mi sembra d’essere nato sempre dove sono”: ogni nuovo spostamento prevede una rinascita, ogni addio una morte. Vaga nel deserto sperando di trovare una via d’uscita alla quale poter accedere senza dover puntare il fucile e sparare. Un’utopia, per Mann, probabilmente consapevole che “Crescit eundo”, avanza crescendo, è il motto ufficiale del New Mexico.

Info
Il trailer de L’uomo di Laramie.

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