Invito al viaggio. Ricordando Peter Del Monte
Peter Del Monte si è spento in una clinica romana, dopo una lunga malattia. Alla fine di luglio avrebbe compiuto 78 anni, e non dirigeva un film dal 2014 (Nessuno mi pettina bene come il vento). Autore delicato, fautore di uno sguardo “morbido” sulle atrocità del vivere – soprattutto per quel che concerne l’infanzia e l’adolescenza –, si è mosso sempre in una posizione laterale rispetto alla marea montante della produzione italiana. Forse dimenticato, come tutta l’arte che non si accomoda nella prassi, sicuramente poco compreso, ha diretto alcune delle opere più liriche e coraggiose degli anni Ottanta e Novanta: Piso pisello, Invito al viaggio, Piccoli fuochi, Étoile, e Compagna di viaggio.
In una breve intervista del 1985, reperibile sul sito dell’Istituto Luce e condotta durante la promozione di Piccoli fuochi, Peter Del Monte risponde così a una domanda concernente il suo stile e il suo approccio al cinema e alla regia: «Non mi pongo a priori problemi di stile. Come diceva qualcuno chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile. Secondo me bisogna essere un po’ quello che si è, poi lo stile verrà fuori per conto suo, se c’è. In un cinema convenzionale com’è oggi quello italiano, e anche internazionale, in cui tutti i film in qualche modo sembrano già visti o si somigliano tra di loro, io cerco di fare dei film personali, magari con dei difetti ma che mi rassomiglino il più possibile». L’Italia che si approssima alla (rinata) stagione dei festival, cercando di capire quali collocazioni otterranno i film prodotti nell’ultimo anno, e chi riuscirà a trovare spazio nei cartelloni di Cannes, Locarno e Venezia, perde una delle sue voci più limpide, ma chissà se se ne accorgerà. Dopotutto l’aveva persa da anni, senza particolari clamori: anche a causa della malattia negli ultimi venti anni Del Monte aveva diretto solo due film, Nelle tue mani e Nessuno mi pettina bene come il tempo, entrambi oggetti difficili da maneggiare per chi ha gli occhi ancorati alla contemporaneità, alla velocità dell’oggi, al tempo destinato al riciclo immediato. Non si poteva e non si potrà riciclare il cinema di Del Monte, con quello sguardo morbido in grado di carezzare le profondità più dolorose e tragiche dell’esperienza umana. Non si poteva e non si potrà mai rifare il cinema di Del Monte, né forse imitarlo. In qualche momento, e in più di un istante, l’unico occhio in cui far specchiare l’immagine di Del Monte è stato quello di Marco Bellocchio, maestro dell’indagine dell’oscurità della mente e della passione, non necessariamente – o meglio, non solo – carnale. Se c’è un umore nel quale si immerge Del Monte quell’umore è il sangue, per quanto ne scorra solo in modo episodico nel corso della sua narrazione per immagini. Il sangue come veicolo dell’affetto, della genealogia, del raptus, del contagio. Non è certo contemporaneo Del Monte, né lo è mai stato nel corso dell’ultimo ventennio e più: un uomo del Novecento, che ha compreso e sfidato le regole insite nel suo Tempo pur accettando un percorso laterale, mai nell’occhio dell’uragano produttivo. Certo, c’è stato un periodo – quello più fertile, sia esteticamente che produttivamente – in cui il suo nome era tenuto in ampia considerazione: erano gli anni de L’altra donna, Piso pisello, Invito al viaggio, Piccoli fuochi, i titoli che lo consacrarono tanto in Italia quanto all’estero come uno dei cineasti più affascinanti, e coraggiosi.
Eppure gli insuccessi dell’ammirevole Étoile e del volutamente dispersivo – e disperso, visto che in pochi ne serbano memoria – Tracce di vita amorosa lo spinsero in un attimo fuori dal percorso collettivo di un’industria allo sbando. Negli anni Novanta, periodo storico più sottostimato e poco studiato nella storia del cinema italiano, partorì uno dei suoi lavori più compiuti, quel Compagna di viaggio che traccia un percorso doloroso e tenerissimo nella memoria e negli affetti, e nella memoria degli affetti (di nuovo, non necessariamente “di sangue”, visto che tra l’attempato professore in pensione con segni di demenza interpretato da Michel Piccoli e la giovane precaria – in tutti i sensi – Asia Argento non esiste alcun legame di parentela), alla ricerca voluta e pervicace dello spaesamento, del paesaggio itinerante, dello sfondo in movimento. Tutto il cinema di Del Monte, dopotutto, è un lungo e sincero invito al viaggio, anche se quest’ultimo può essere puramente emotivo, o metaforico. È un viaggio tra il chapliniano e lo zavattiniano quello intimo e materiale che compie Oliviero, il ragazzo-padre di Piso pisello, ma è un viaggio anche quello cui vengono spinti tutti i personaggi della storia, dalla May che gli molla lì il bimbo avuto a tredici anni e fugge ai genitori, uno destinato alla vita circense e l’altra alla riscoperta del mondo in Cambogia. Viaggiano nello spazio e nel tempo i personaggi di Del Monte, e con loro viaggio il senso stesso dello sguardo, del cinema, dell’atto tecnologico-tecnocratico che deve farsi umano e quindi fallibile, esteticamente dolce anche quando affronta l’oscurità come nel caso di Étoile, rielaborazione dei canovacci del gotico attraverso una prospettiva inusitata. In un tempo così elaborato di sovrastrutture come il contemporaneo lo sguardo di Del Monte, così nudo, limpido e diretto ma anche in grado di scavare nei turbamenti e nelle insoddisfazioni della vita, da Irene che abbandona di colpo il marito in Irene, Irene alla passione bruciante – nel vero senso della parola – che lega il piccolissimo Tommaso alla babysitter Mara in Piccoli fuochi, fino all’impossibilità di accettare la maternità da parte di Mavi in Nelle tue mani o allo sbalorditivo finale di Invito al viaggio. Questo mondo forse in parte schizoide, sicuramente incapace di trovare un proprio posto saldo nella società è reso da Del Monte sia nel ricorso a un immaginario vasto, mai semplificato – il suo occhio si aggira anche dalle parti del fantastico, del gotico, della fantascienza, a seconda della bisogna –, sia nell’accettazione della sfida lanciata dal moderno: così nel 1987 Giulia e Giulia, prodotto dai programmi sperimentali della Rai, è il primo film di fiction al mondo girato con la videocamera Sony HDVS, e Piccoli fuochi presenta un lavoro sull’effetto speciale assai distante da un cinema invece sempre più rimpicciolito, sia nelle ambizioni che nella capacità di sguardo.
Cineasta antiretorico e teso a una rappresentazione del mondo non consueta per gli schemi interpretativi del cinema italiano, Del Monte è stato un “piccolo maestro”, un autore prezioso e a suo modo unico che non ha però mai trovato un reale riscontro, neanche da parte di quella critica che avrebbe avuto il dovere proprio di difenderne l’unicità, la peculiarità espressiva, e che si è invece persa dietro apparenti appesantimenti di natura letteraria e storie che forse, semplicemente, la critica stessa non sapeva mettere a fuoco. «Come diceva qualcuno chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile»: ecco, forse in troppi si sono avvicinati a Del Monte cercando sempre e solo lo stile, e dunque perdendo di vista la vita che prorompeva irruenta dai personaggi rappresentati in scena. Forse, almeno nel momento del lutto, sarebbe il caso di ripartire dall’inizio, riscoprendo il cinema di Peter Del Monte da quel 1969, quando uscì dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma (all’epoca sotto l’egida di Roberto Rossellini) con un lungometraggio che fungeva da saggio di diploma: è Fuori campo, già viaggio – nel cinema e nella vita –, già dispersione, già ricerca di una prospettiva personale. Fuori campo, come il punto più atteso del baseball, o come ciò che non appare direttamente in scena, ma ne sublima l’esistenza. Ci sarebbe molto da imparare, anche per le giovani generazioni di registi, dalla filmografia di Peter Del Monte. Chissà che qualcuno non lo faccia.