A Chiara

A Chiara

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A Chiara, dopo Mediterranea e A Ciambra, è la perlustrazione della piana di Gioia Tauro da parte di Jonas Carpignano. Ben lontano però da uno sguardo entomologico, il giovane regista aderisce in pieno agli umori, ai turbamenti e alle pulsioni dei suoi protagonisti. In questo caso si tratta di Chiara, quindicenne che scopre le attività illecite del padre solo quando questo si rifugia nella latitanza. Alla Quinzaine des réalisateurs al Festival di Cannes.

La famiglia

Chiara Guerrasio, secondogenita ma prima nel cuore di suo padre, è una ragazzina sveglia e, al contrario delle sue sorelle, ha un carattere forte e deciso. Quando suo padre lascia Gioia Tauro per un lungo viaggio di lavoro, gli equilibri all’interno della famiglia cambiano e Chiara è costretta a vedere la sua città e la sua famiglia con occhi diversi. [sinossi]

In questo Festival di Cannes fuori stagione si avverte, più che mai, il differente posizionamento sul cinema italiano (o forse sul cinema tout court) tra la selezione ufficiale sotto l’egida di Thierry Frémaux e le selezioni collaterali, la Quinzaine des réalisateurs e la Semaine de la Critique. Da un lato il classicismo romano di Nanni Moretti e del suo Tre piani, un usato di qualità e soprattutto sicuro, ma anche di Marco Bellocchio che proprio sul suono della campanella porterà sulla Croisette l’attesissimo Marx può aspettare; dall’altro la ricerca di una produzione cinematografica che si muova in posizione ostinata e contraria, o quantomeno mostri una propria indipendenza, di sguardo ma anche all’interno delle dinamiche del sistema, in grado di contrapporsi alla marea montante del cinema istituzionale. È così per Piccolo corpo, interamente parlato in friulano e portato a termine – per quel che concerne la parte italiana – da Nefertiti Film; è così anche per Europa che il trentaseienne italo-iracheno Haider Rashid ambienta tra Turchia e Bulgaria, prodotto dalla fiorentina Radical Plans; è così, ancora, per Re granchio che segna l’esordio al cinema di finzione di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis e che si muove nel Diciannovesimo Secolo tra la Tuscia e la Patagonia (a produrre è la Ring Film). In qualche modo è così persino per Futura, che pur mettendo insieme tre dei nomi più seguiti del “giovane” cinema italiano – Pietro Marcello, Francesco Munzi, Alice Rohrwacher – è in tutto e per tutto un lavoro collettivo, distante dai canoni produttivi dell’industria. In questo vasto panorama (e va dato merito a Charles Tesson e Paolo Moretti di aver saputo in quale direzione muovere lo sguardo) si inserisce in modo del tutto naturale A Chiara, terzo lungometraggio da regista di Jonas Carpignano selezionato all’interno dei lavori della Quinzaine des réalisateurs. Di tutti i registi succitati il nome di Carpignano era quello più atteso al varco, sia perché il suo cinema continua a rimanere un oggetto ai più misterioso – vista la pessima o nulla distribuzione ricevuta dai film precedenti – sia perché A Ciambra, visto sempre alla Quinzaine nel 2017, aveva legittimato notevoli attese.

La prima risposta di Carpignano a queste aspettative critiche è rintracciabile già nella scelta geografica. Per la terza volta (la quinta considerando anche i cortometraggi con cui ha iniziato a cimentarsi) il trentasettenne regista nato a New York – la madre è statunitense di origini barbadiane – decide di indagare quell’area abbandonata dal cinema che è la piana di Gioia Tauro. Quel posto in cui si era recato la prima volta per raccontare la rivolta dei braccianti di Rosarno (elemento storico su cui si basa Mediterranea) e che è diventato un cosmo a se stante, in grado di racchiudere al proprio interno sogni e distonie di un mondo in sommovimento, del tutto o quasi al di fuori della legalità ma strutturato, stratificato, ricco di sfumature. Per quanto sia desideroso di non distaccarsi dalla sua protagonista, la quindicenne Chiara che scopre che il suo adorato papà è in realtà un trafficante di droga che lavora per conto della ‘ndrangheta, e questo attaccamento lo si percepisce fin dall’incipit, che riprende la ragazzina in palestra, Carpignano non adotta mai uno sguardo entomologico, non cala mai la camera dall’alto, non osserva mai i suoi protagonisti come stesse ponendo l’occhio su un microscopio. Quella partecipazione emotiva della messa in scena già presente nei film precedenti prorompe con forse ancora maggior forza in A Chiara, come dimostra in modo eclatante la lunghissima sequenza che ha come centro narrativo la festa per il diciottesimo compleanno di Giulia, la sorella maggiore della giovane (c’è anche una terza sorellina, ancora piccola): oltre venti minuti in cui apparentemente si sta solo fotografando un momento di intimità familiare, ma che al contrario rappresenta uno scandaglio di quell’umanità, dei rapporti personali, di quel senso di famiglia che è poi uno dei punti cruciali attorno ai quali ruota l’intera narrazione. Come ci si pone, da adolescenti, di fronte a una famiglia che scopri di conoscere solo in parte? Come si reagisce quando si viene a sapere che il proprio padre è in realtà un latitante, e ha addirittura un piccolo bunker costruito sotto la casa in cui vive con moglie e figlie?

Se la “famiglia” è un aspetto canonico all’interno delle storie dedicate alla criminalità organizzata, Carpignano cerca di evadere da qualsiasi rappresentazione manichea, e statica. I Guerrasio sono vivi, pulsanti, in conflitto in principio contro se stessi – ed era così in parte anche per Pio, lo splendido protagonista di A Ciambra. Chiara sta cercando un proprio posto nel mondo, è aprioristicamente ostile verso una delle sorelle di Pio solo perché rom, ed è dotata di una spiccata intelligenza. Eppure non può conoscere in profondità la sua famiglia, non le viene concesso. Rispetto al film precedente, interamente chiuso in una zona di Gioia Taura, A Chiara è anche un racconto di spostamenti: Chiara cerca suo padre, si reca anche nella Ciambra, e poi sarà costretta a uno spostamento – con fuga – a Urbino, che sembra lontanissima, quasi appartenesse a un altro continente. La sua necessità è quella di esistere, e quindi di conoscere la (o le) verità. Questo percorso iniziatico, che potrebbe avere le più differenti svolte – e qui non le si anticiperà – è racchiuso tra due compleanni, speculari a loro modo, eppure così profondamente diversi. Due compleanni che non si parlano né per censo, né per area geografica, e neppure per attitudine familiare. E che pure continuano a scrutarsi in uno specchio scuro, dov’è chiusa l’anima delle persone, il loro dolore più intimo, la loro verità più inconfessabile. Jonas Carpignano è uno dei grandi registi del “nuovo” cinema italiano. Che non si faccia finta di nulla.

Info
A Chiara sul sito della Quinzaine des réalisateurs.

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