Una vita in fuga

Una vita in fuga

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Flag Day, in Italia Una vita in fuga, segna il ritorno di Sean Penn alla regia (e al Festival di Cannes) a cinque anni di distanza da Il tuo ultimo sguardo, e il risultato purtroppo è altrettanto disastroso. Nel raccontare la storia vera del criminale John Vogel, vista qui attraverso gli occhi della figlia, Penn cade in tutti i luoghi comuni del mélo, cercando inutilmente di inseguire traiettorie del cinema statunitense, da Terrence Malick a Oliver Stone.

La figlia del falsario

John Vogel è stato un personaggio fuori dalla norma. Da bambina sua figlia Jennifer era infatuata del suo magnetismo e della sua capacità di trasformare l’esistenza in una grande avventura. Pur avendo appreso da lui molte cose sull’amore e la gioia, la ragazza scoprirà la sua vita segreta di rapinatore di banche e falsario. [sinossi]

Cinque anni fa Sean Penn approdò sulla Croisette in concorso con il pessimo Il tuo ultimo sguardo, pastrocchio sentimentale intriso di squallido umanitarismo hollywoodiano, con una irricevibile rappresentazione dell’Africa. La delusione per tutti coloro che avevano visto nell’attore statunitense un regista per niente banale, come testimoniano i vari Lupo solitario, La promessa e 3 giorni per la verità, fu enorme. La verità è che quei titoli sono oramai lontani nel tempo, per quanto Penn sembri ancora guardare con intensità al cinema della new Hollywood e dintorni. Il ritorno in concorso a Cannes con Una vita in fuga – ma sarebbe stato forse più adeguato accogliere il film in una sezione con competitiva – purtroppo non fa che confermare lo stato di profonda impasse in cui si trova arenato l’autore di Into the Wild. L’occasione di per sé sarebbe stata anche ghiotta, perché portare in scena la vera storia di John Vogel, falsario e rapinatore di banche suicidatosi dopo un tragico inseguimento da parte della polizia del Minnesota nel luglio del 1995, significava confrontarsi con le ombre oscure di una nazione che ha fatto del denaro e del successo la sua unica vera e icona. Per di più il fatto di discettare del personaggio prendendo a spunto il suo rapporto con i figli, in particolar modo con la figlia Jennifer (che d’altro canto ha scritto il volume dal quale è stato tratto il film), permette a Penn di confrontarsi a sua volta con la progenie, portando in scena la figlia Dylan e il figlio Hopper Jack. In qualche modo è come se Penn stesso ammettesse di essere un falsario, e di dover fare i conti con la paternità e le sue responsabilità. In questo senso Una vita in fuga potrebbe essere anche un lavoro affascinante, e il discorso vale anche per la volontà di confrontarsi direttamente con una parte della storia recente del cinema statunitense. Tra lirismi rurali à la Malick e un montaggio delle attrazioni che molto deve all’esperienza di Oliver Stone – lo Stone a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la metà del decennio successivo, per essere precisi – Penn cerca di irrobustire l’estetica di un film che per il resto procede per un accumulo ai limiti dell’insostenibile di scene madri, in un ricorso sistemico all’effetto che sia in grado di mascherare il vuoto della rappresentazione.

Il risultato è in linea, come già scritto, con il precedente Il tuo ultimo sguardo, e se qui viene meno la componente più fastidiosa, quella di un progressismo privo di reale profondità espressiva e politica, allo stesso tempo si rinforza l’idea di un cineasta che non ha più alcuna reale voglia di confrontarsi con il dolore dei suoi personaggi ma ama raccontarne la superficie liscia, prediligendo l’ovvietà del pathos alla ricerca di una psicologia credibile, e dunque realmente conflittuale. Una vita in fuga è un lungo – troppo lungo – viaggio nella disillusione di una ragazza che scopre che il padre (che è anche l’uomo dei suoi sogni, dettaglio che però Penn non ritiene valga la pena approfondire) non è l’eroe che pensava, ma solo uno squallido truffatore che non sa essere sincero neanche con la propria progenie. Penn, del tutto disinteressato al reale racconto di una storia credibile, o che sappia far presa sugli spettatori senza ricattarli in continuazione, è a corto di idee anche dal punto di vista dell’immaginario. L’unica ancora di salvezza, che appare anche in qualche modo un grido d’aiuto, è quella di rifugiarsi nei suoi affetti. Dei figli si è già scritto, ma il discorso torna valido anche per l’invadente colonna sonora, in cui classici del rock vengono riletti da amici del regista – tra gli altri il fido Eddie Vedder e Cat Power – ingombrando ogni inquadratura, ogni scena, ogni climax emotivo. La musica trasuda dalle varie scene, di nuovo tesa a colmare un vuoto d’immagine, e di senso, ma non può salvare un film incapace di trovare il proprio ritmo, e per di più del tutto incolore, insipido, stanco e già ampiamente visto. Ecco allora Penn ancorarsi a vaghe immagini sperse nel tempo: l’esempio più paradigmatico è la parata dei massoni “Shriners”, con il loro riconoscibile fez, alla guida di mini-automobili, fotografia presa in prestito dalla copertina di Frankenchrist, il terzo album in studio dei Dead Kennedys. Flag Day (questo il titolo originale del film) è disseminato di queste citazioni, disperato tentativo di Penn di riscoprirsi autore, senza purtroppo fortuna. Resta, come dopotutto nel film precedente e in Into the Wild, l’idea di confrontarsi con il “vero”. Ma è davvero troppo poco.

Info
Flag Day sul sito del Festival di Cannes.

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