Caro pc, io e te, solo io e te

Caro pc, io e te, solo io e te

“Caro pc, io e te, solo io e te”: si rivolge al computer Alessandro Aniballi in Una claustrocinefilia, che è stato presentato oggi al Bellaria Film Festival nella sezione Gabbiano. Alessandro è uno dei fondatori di Quinlan, e non era dunque possibile pensare a una recensione ‘classica’. Abbiamo dunque optato per una chiacchierata, da cui poi desumere il senso, o il nonsenso, o l’ultra-senso di questo atto cinefilo e (anti)critico, che è però anche analisi di sé e del rapporto onirico/reale con l’immagine.

“Caro pc, siamo io e te, solo io e te”. Così Alessandro Aniballi si rivolge al suo computer, amico e confidente, tenutario di segreti che però possono diventare anche inespugnabili (un documento word, se non ci si ricorda la password con la quale si è salvato, può rimanere chiuso in modo ermetico per sempre, smarrendo le riflessioni che vi si erano scritte all’interno). “Caro pc”, dice Alessandro con la sua voce in Una claustrocinefilia, il film con cui esordisce alla regia e che viene presentato al Bellaria Film Festival 2022 all’interno del concorso Gabbiano. Non è un film come tanti per Quinlan Una claustrocinefilia, perché Alessandro Aniballi è uno dei fondatori – con chi scrive, Enrico Azzano, e Daria Pomponio – di Quinlan; e non è doppiamente un film come tanti per chi scrive, visto che oltre ai lavori insieme viene anche citato in maniera diretta durante il film (“Raffaele mi chiede sempre di scrivere de L’infernale Quinlan”). Può una rivista pubblicare una “recensione” sul film che ha diretto uno dei suoi fondatori, e che mostra all’interno anche l’home page della rivista stessa? Ovviamente no. Per affetto, per opportunità, per etica, non era proprio possibile che su Quinlan venisse pubblicata una recensione di Una claustrocinefilia. Però come potevamo lasciar cadere nel vuoto un lavoro che ragiona nel suo senso proprio sul superamento della critica? Com’è come non è ci siamo interrogati e abbiamo deciso di vederci a casa di Alessandro, davanti alla timeline del montaggio, per chiacchierare del film: non un’intervista, ovvio, sarebbe stata ancora più insensata, né una presentazione (per quello basta il lavoro dell’ufficio stampa) ma un modo per cercare di mettere in luce alcuni aspetti, e per discutere di un film che fa critica dell’immagine con l’immagine, ma attraverso il quale Alessandro analizza anche se stesso, il proprio tempo, la propria memoria. Così tra un caffè e una carezza a Sean Sean (uno dei due gatti di Alessandro e Daria), ci siamo lanciati in questa bizzarra impresa che non è intervista e non è critica, eppure è – si spera – discussione sul cinema.

Chiuso, come tutta l’Italia, in lockdown, Alessandro è partito dal rifiuto della critica facendo però critica, e perfino dal rifiuto della voce (sgraziata?) utilizzando però proprio la voce. Tra il “delirio di onnipotenza e l’umiltà da mentecatto” (frase utilizzata nel film) Alessandro afferma di non essere partito dalla voce, ma dal chiedersi cosa fare e “ho iniziato a registrare con la webcam telefonate, di cui è rimasta solo quella con mio padre che non sapeva che stessi registrando”. Prima di proseguire urge una spiegazione di ciò di cui si sta parlando: Una claustrocinefilia è un film di montaggio, iniziato durante il lockdown, in cui Alessandro ragiona sulla sua progressiva disaffezione dalla critica come pagina scritta, e lo fa tornando al cinema che l’ha formato, narrando attraverso la sua voce aneddoti della sua infanzia, ripercorrendo episodi dell’università, vagheggiando di Benicious, un critico polacco degli anni Ottanta – ne parla Giovanni Spagnoletti in un divertente dialogo ripreso al Festival di Cannes del 2019, l’ultimo prima dell’irrompere della pandemia. Un film fatto da Alessandro, su Alessandro e le sue memorie/affetti, umane e feline. Un dialogo col computer che diventa analisi del cinema, di se stesso, del rapporto con l’immagine. Ma perché un critico “abbandona”, almeno come afflato, la scrittura per rivolgere il proprio discorso al fare cinema, al montaggio, alla ricostruzione e distruzione del già filmato? In Una claustrocinefilia c’è ovviamente Orson Welles, speculazione e amore sommo di Alessandro, e infatti uno dei riferimenti dell’idea alla base del film – senza volersi lanciare in paragoni improvvidi – è F for Fake, “l’idea di mischiare tanti materiali completamente diversi e cose girate nel corso degli anni o pensate da lui stesso ma per altri film. Per esempio per me è una gioia incredibile pensare di essere riuscito a infilare nel montaggio le immagini di Ha perduto qualque cosa, signora? di Giordano [è un mediometraggio di Giordano De Luca che girammo tutti insieme nell’autunno del 2002, subito dopo la laurea, N.d.A.] ma anche quelle di Eugenio Barzaghi che mi taglia i capelli a casa dei miei – le riprese sono di Vincenzo Sangiorgio –, forse per prepararmi al tuo Lemmy sans trope. Essendo una cosa autobiografica ho pensato di poter mettere ogni tanto delle cose mie di quando ero più giovane, anche se è un materiale che non c’entra niente.

Una claustrocinefilia resta in ogni caso un’opera di scrittura, anche se Alessandro avverte una differenza tra la prima ora e l’ultima mezz’ora, perché nella prima parte è partito dall’immagine, lavorando su blocchetti un po’ separati, per poi scrivere la voce, mentre nel finale ha operato nel modo diametralmente opposto, chiudendo il programma di montaggio e scrivendo un testo a cui poi ha legato delle immagini. Così se nella prima ora “c’è un andamento progressivo, questo viene un po’ a perdersi nell’ultima parte, che però forse arrivo anche a preferire, perché non c’è più critica, non analizzo più film – l’ultimo è Le mani sulla città. Però nell’ultima mezz’ora l’analisi critica c’è, o meglio c’è il tentativo di farla solo attraverso il montaggio: a esempio montando le immagini de Il processo mi sono accorto che Welles faceva il montaggio degli occhi dei bambini, e io li ho tolti per montarvi l’occhio di The Other Side of the Wind, senza però specificarlo attraverso il commento, perché sto parlando di tutt’altro”. In questo processo di contestualizzazione privata dei film che ama, Alessandro li “costringe” a legarsi al suo racconto, arrivando addirittura a “ridoppiare” La fiamma del peccato. In maniera molto diretta, e anche svelando una verità che una parte della critica in realtà finge che tale non sia, Alessandro spiega attraverso il montaggio uno dei motivi per cui il mondo cinefilo ama davvero il cinema: l’immagine diventa iconica perché in realtà serve anche a raccontare noi stessi. Non si tratta solo di analizzare un film, ma ne rivendichiamo l’appartenenza. Cambiando il codice, non utilizzando la scrittura ma muovendosi attraverso l’immagine, Alessandro può permettersi questo “lusso”, provando a fare critica ma in modo diverso. Proprio per il discorso sull’iconicità dell’immagine non si può uscire dal fatto che la stragrande maggioranza dei film scelti da Alessandro (quasi 150) siano considerabili come “classici”. La sua operazione, per quanto in parte simile a quella portata a termine da Frank Beauvois con Ne croyez surtout pas que je hurle, ne è in realtà a conti fatti l’opposto: “stavo ricercando la mia mitologia”, rivendica Alessandro, “nella scelta dei film a un certo punto ero un po’ in crisi perché ne avevo già usati tanti, e io nella scelta partivo sempre da un ricordo che avevo di un dato film, ad esempio la nebbia per Identificazione di una donna. Poi rivedendo il film ho ritrovato tante altre immagini che mi potevano servire. Così ogni tanto, nei momenti di crisi, mi buttavo sul letto e andavo a cercare nella mia memoria cinematografica delle cose che in qualche modo potevano entrare in quel che avevo scritto, per esempio la faccia di Spencer Tracy in Dottor Jeckyll e Mr. Hyde, che ho montato verso la fine”. Così se Beauvois ammette di non poter fare un racconto di sé senza ricorrere all’immagine già filmata – potendo quindi ricorrere a una bulimia di immagini anche irriconoscibili –, il discorso di Alessandro parte sì dal personale ma si allarga al cinema in quanto tale, al punto da potersi mettere direttamente in scena, o magari mentre telefona al padre.

Una claustrocinefilia non è una sfida a riconoscere i film, né si tratta di uno sfoggio di competenza cinematografica: la suggestione può essere anche solo visiva, basata sull’associazione di idee che diventa associazione di senso. Anche se Alessandro rivendica il suo progressivo distacco dalla critica, mettersi in moviola è anche un modo per trovare una nuova prospettiva alla critica stessa – vedere il passaggio in cui analizza un’inquadratura de L’infernale Quinlan, per esempio – ed è un esercizio utile per tutti coloro che vogliono confrontarsi con l’immagine per attribuirle un senso. Si entra davvero dentro un film quando lo si può scomporre, sezionare, ricostruire.

Info
Una claustrocinefilia sul sito del Festival di Bellaria.

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