Peter Greenaway e i misteri dell’inquadratura
Ormai un film cult, I misteri del
giardino di Compton House, titolo italiano di The
Draughtsman’s Contract, nel 1982 fece conoscere al mondo il
talento visionario di Peter Greenaway, la sua capacità eclettica di
contemplare la storia delle arti visive, la sua impressionante
erudizione. Greenaway è ora riconosciuto quale un Maestro del cinema
britannico, attivo anche come autore di videoinstallazioni, libri,
allestimenti teatrali.
Abbiamo incontrato Peter Greenaway durante la
79 Mostra del Cinema di Venezia, dove è stata presentata,
nell’ambito di Venezia Classici, la versione restaurata di The
Draughtsman’s Contract, che uscirà in sala e su piattaforma per
I Wonder.
Sei qui a Venezia per presentare il restauro che il BFI ha fatto del film che ti ha fatto conoscere a un pubblico internazionale, ovvero The Draughtsman’s Contract, del 1982, che in italiano è uscito come I misteri del giardino di Compton House. Come è stato fatto il lavoro di restauro? Sei stato coinvolto? Sei soddisfatto del risultato? E sei soddisfatto del fatto che il film tornerà a circolare?
Peter Greenaway: Ho sempre amato la Mostra di Venezia, e mi trovo benissimo in questa magnifica città. Un po’ meno a Cannes e non posso dire altrettanto per Berlino perché il festival si tiene con quel clima terribile, piove, nevica. Per cui il mio festival di cinema preferito è Venezia. I miei eroi sono Fellini e Godard. Amo la Nouvelle Vague e il cinema italiano, sono stati periodi straordinari, da La dolce vita a L’ultimo imperatore. E poi cosa ne avete fatto? Perché avete buttato via tutto questo? Ma non credo che ci sia una risposta a questa domanda. Per quanto riguarda il restauro c’erano molte complicazioni. Nel 1982 ero considerato come un regista sconosciuto, quindi nessuno mi avrebbe dato tanti soldi, sarebbe stato troppo rischioso. Così girammo il film in super 16, non credo nessuno usi più questo formato. Quindi lo gonfiarono in 35mm, e ora hanno fatto un restauro in 4K. Ero molto preoccupato per la qualità finale, ma non credo sia malvagio se consideri il contesto. Ci sono una o due riprese che hanno una densità molto bassa di luce, che non avrei voluto. Non avevo idea di come sarebbero venute gonfiate in 4k. Lasciami dire che complessivamente sono soddisfatto. Credo che per contenuto e linguaggio sia ancora un film interessante. Ci sono certi elementi che suggeriscono che si tratta di un’opera prima, fondamentalmente la linearità e il vocabolario filmico scarso. Se dovessi fare ancora The Draughtsman’s Contract, non lo rifarei esattamente così, però il linguaggio era già il mio. Cercavo di essere un pittore. In tutto il film la camera si muove solo due volte, come la pittura che non è in movimento. Volevo rendere l’idea dell’inquadratura e stabilire con il pubblico come l’inquadratura sia un qualcosa di artificiale, molto artificiale. L’artificiosità è del resto la caratteristica di tutto il film. Per i costumi. Per il linguaggio inglese molto elaborato, le maniere dei personaggi. Si trattava di una società post-shakespeariana, post-giacobina, molto impostata, nei modi, nei gesti. Ho davvero rispettato quelle storiche caratteristiche.
Nel film il disegnatore, Mr. Neville, usa una specie di cornice per delimitare il paesaggio in quello che verrà riprodotto nel quadro. È come un’inquadratura interna, secondaria, rispetto alle tue inquadrature da regista di cinema. C’è un discorso forte in questo senso, un dialogo tra le due inquadrature e i due punti di vista. Puoi parlarmene?
Peter Greenaway: Sì perché anche io ero un disegnatore. Sia dentro che fuori l’inquadratura, ho deliberatamente creato una cornice che si pone in parallelo con quella che esisteva nel dispositivo del disegno dell’epoca, parliamo di un film ambientato nel 1694, appena prima del Settecento. Al disegnatore viene chiesto di raffigurare semplicemente ciò che vede e non ciò che immagina.
Qui c’è un discorso sull’arte come atto creativo piuttosto che come riproduzione della realtà. In questo caso l’artista è chiamato a svolgere il ruolo di fotografo in un’epoca in cui non era stata ancora inventata la fotografia.
Peter Greenaway: Esattamente. Quando ero alla scuola d’arte mi sentivo spesso dire di disegnare quello che vedi e non ciò che inventi o non ciò che hai memorizzato. C’era però una grossa contraddizione: quando dovevi disegnare un paesaggio dovevi distogliere lo sguardo dal paesaggio per vedere ciò che stavi facendo. Quindi anche solo per un nanosecondo tu stavi ricordando. E quindi disegnando non ciò che vedi ma ciò che ricordi. La mia era uno scuola d’arte d’alto livello, elitaria. Ma questa è un’idea interessante. Tutti, compresi Caravaggio, Rembrandt, Michelangelo dipingevano davvero dalla memoria, non dalla realtà.
Inserendo questi discorsi nella struttura narrativa del film, che è quella della detective story, non posso non pensare che I misteri del giardino di Compton House sia una sorta di Blow-Up trasposto a fine Seicento, laddove gli indizi sono forniti da particolari dei disegni equivalenti alle fotografie del film di Antonioni. Cosa ne dici?
Peter Greenaway: Esattamente. Non solo in Italia avete cambiato il titolo inglese The Draughtsman’s Contract, anche in Francia per esempio. Si sono scelti dei titoli in stile thriller, in stile Agatha Christie per attirare, dando l’idea del mistero. Si tratta di una forma di propaganda dei distributori per attirare la gente, ma per me va bene.
In questa tua opera, come in tutto il tuo lavoro, è fondamentale far confluire varie forme d’arte. Qui abbiamo l’architettura, del palazzo ma anche del giardino formale, il disegno che è come una fotografia. Cosa mi puoi dire?
Peter Greenaway: È una cosa che cerco di fare in ogni mio film. Ne Il ventre dell’architetto è centrale l’architettura. Sono stato fortunato di lavorare con un grande compositore come Michael Nyman. Ho sempre voluto mettere altre forme d’arte, come la calligrafia giapponese in I racconti del cuscino. Quindi sono molto desideroso di abbracciare tutte le altre forme di espressione artistica. Si dice che il cinema, la settima arte, contenga curiosamente tutte le altre. E io voglio dire: sì. Sì, sì, il cinema deve essere così.
Hai parlato di Michael Nyman, un grandissimo compositore. Come hai lavorato con lui?
Peter Greenaway: Lui è uscito dal college di musica più o meno nello stesso periodo in cui sono uscito dal mio college d’arte e abbiamo sentito che c’era un certo rapporto e abbiamo pensato di provare a rinnovare la nozione di musica contemporanea. Lui era certamente influenzato da Philip Glass ma aveva una formazione accademica come me. Conosceva benissimo Purcell e la musica barocca inglese. Abbiamo cercato di mettere tutte queste cose insieme. Abbiamo fatto tantissimi progetti insieme. La prima cosa che avremmo voluto fare insieme era una specie di animazione, ma non funzionò. L’ultimo film che abbiamo fatto insieme è stato L’ultima tempesta (Prospero’s Books) con il grande attore teatrale inglese John Gielgud.
Hai detto che non rifaresti più The Draughtsman’s Contract come lo avevi concepito nel 1982. Apparteneva a una fase ancora narrativa pur di un cinema estremamente visionario. Hai poi alternato opere di quel tipo con altre sperimentali più spinte, penso per esempio alla serie Le valigie di Tulse Luper. Come mai questa evoluzione, se così possiamo definirla?
Peter Greenaway: Ho avuto un grande mentore che all’epoca mi diceva che il mio cinema all’origine basicamente significasse far parlare i personaggi alla camera. Mi disse di provare a far parlare i personaggi l’uno con l’altro, sarebbe stato un grande cambiamento. Quindi ho finito con scrivere sceneggiatura. Fu una grande sorpresa riuscire a trovare i finanziamenti per quella che è stata un’era particolare del mio cinema. Le sorprese sono state una caratteristica di tutto il mio cinema.