Venezia 2023 – Presentazione
Venezia 2023, ottantesima edizione della Mostra e penultima sotto l’egida di Alberto Barbera (a meno di rinnovi, ovviamente), si era inaugurata con la defezione di Challengers di Luca Guadagnino, scelto come film d’apertura. La Mostra ha avuto però la forza di trattenere gli altri film hollywoodiani selezionati, mantenendo dunque la struttura prevista che come oramai d’abitudine guarda soprattutto a occidente.
Tanto tuonò che non piovve. A quanto pare il caso relativo al nuovo film di Luca Guadagnino, scelto come apertura di Venezia 2023 e poi ritirato a causa dello sciopero che sta infiammando Hollywood, resterà come un’anomalia, un evento isolato e non la prassi. Lo si può evincere dalla lettura del programma dell’ottantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, reso pubblico oggi dopo alcuni giorni contraddistinti da piccole o grandi fughe di notizie – ad esempio riguardo la presenza in concorso di ben 6 titoli di produzione italiana –; dei film d’oltreoceano selezionati solo Challengers si è trovato costretto a declinare l’invito, a seguito della decisione di spostare avanti di alcuni mesi, addirittura alla primavera del 2024, la distribuzione. Va detto d’altro canto che la maggior parte dei film statunitensi scelti si muovono nel territorio di quello che un tempo sarebbe stato definito “indie”, e questo garantisce un po’ più di libertà rispetto alle rigide regole sindacali. In ogni caso, anche venissero a mancare divi e dive da copertina, le opere in cui tali maestranze hanno lavorato avranno modo di essere proiettate in sala Grande, in Darsena, e negli altri luoghi deputati della Mostra. Non si può che gioire, non tanto per la qualità dei film in quanto tali – su quella ci si interrogherà tra poco più di un mese – quanto per il fatto che volenti o nolenti i film riacquisteranno la centralità perduta o almeno in parte smarrita nel corso degli ultimi anni. Alberto Barbera, impegnato nella solita maratona di presentazione, durata quasi due ore e mezza, ha rivendicato tutte le scelte operate in sede di selezione, a partire dalla pattuglia italiana in concorso, mai così corposa da decenni a questa parte, per di più in un’epoca storica in cui il prodotto nazionale non brilla in modo particolare (come lo stesso direttore ebbe a sottolineare non troppo tempo addietro): i titoli italiani a concorrere per il Leone d’Oro saranno dunque, come già si supponeva, Enea di Pietro Castellitto, Finalmente l’alba di Saverio Costanzo, Comandante di Edoardo De Angelis – che ha sostituito Challengers come apertura ufficiale della Mostra –, Lubo di Giorgio Diritti, Io capitano di Matteo Garrone, e Adagio di Stefano Sollima. Per tutti loro, eccezion fatta per Costanzo, si tratta della prima partecipazione in concorso.
Una scelta, quella operata, che lascia ben più di una perplessità. Di nuovo, non si tratta di giudicare i film senza averli visti, ma di provare a ragionare sul senso e sulla struttura che si vuole dare a un evento centrale come la Mostra di Venezia. Sotto questo punto di vista l’edizione numero ottanta si muove nella stessa direzione delle precedenti undici consecutive dirette da Barbera, con una predominante di sguardo occidentale che qui si continua a considerare un punto critico della questione: non solo dei 23 film in concorso ben 14 sono ascrivibili a tre nazioni (Italia, Francia, Stati Uniti), ma se si esclude l’atteso nuovo film di Ryūsuke Hamaguchi, Aku wa sonzai shinai – traducibile con “Il male non esiste” – nessun altro titolo proviene da Africa e Asia, con quest’ultimo continente inteso nella sua interezza, dal vicino oriente di Turchia e Iran al lontanissimo oriente di Taiwan e Giappone. L’America Latina d’altro canto risponde con due soli film, di due autori completamente oramai collegati al mondo occidentale come Michel Franco – il cui film è per di più coprodotto negli USA – e Pablo Larraín. Lo sbilanciamento continua a restare poco giustificabile, agli occhi esterni, e non risponde a verità la vulgata che afferma come il post-COVID abbia reso difficile trovare opere selezionabili in determinate aree del mondo. Una centralizzazione così forte dello sguardo non può che impoverire, a prescindere dal valore intrinseco dei film, la Mostra: rimanendo ai film selezionati, non era possibile accogliere di nuovo in concorso il grandissimo Shinya Tsukamoto, che con Hokage trova invece spazio in Orizzonti? Era troppo pretendere due film giapponesi in concorso? Allo stesso tempo, come si fa a non pensare a quegli autori che la Mostra non ha “combattuto” per avere, ad esempio Radu Jude, Lav Diaz, e Cristi Puiu – i primi due giustamente selezionati da Giona A. Nazzaro a Locarno, il terzo scelto da San Sebástian?
Certo, difficile non provare emozione nel pensare di imbattersi al Lido in David Fincher, Michael Mann, Bertrand Bonello, Woody Allen, Roman Polanski, Richard Linklater, William Friedkin, Harmony Korine e via discorrendo, eppure si continua a rimarcare come alla Mostra “barberiana”, giunta al penultimo anno (a meno di rinnovi, ovviamente), manchi un’intera porzione di mondo e di conseguenza una reale visione a trecentosessanta gradi sul panorama internazionale. Le nazioni meno “conosciute” possono ambire al massimo a Orizzonti, quasi che la stragrande maggioranza della stampa generalista – che da sempre segue quasi esclusivamente il concorso – debba essere tenuta al riparo da certe visioni, lasciando che si possa crogiolare nel suo immaginario di tappeti rossi, attori conosciuti, lingue magari stropicciate ma non ignote all’udito. Dopotutto sui social network, palchetto ideale del pensiero comune, di fronte al rischio che il cinema statunitense saltasse in blocco o quasi, molte sono state le battute sul fatto che avrebbero preso il suo posto “film di sei ore ungheresi sottotitolati in sanscrito”, o amenità simili. Proprio per questo imbarbarimento anche del pensiero cinefilo di massa la Mostra dovrebbe rispondere aprendo lo sguardo su un mondo vasto, ricchissimo di idee, intuizioni, sorprese. Ancora oggi. Così, nonostante le frotte di nomi conosciuti da cui attendersi molto, viene da elogiare soprattutto due scelte del comitato di selezione: l’omaggio a Pema Tseden, scomparso di recente e di cui verrà proiettato fuori concorso il postumo Xue bao, e la presenza in concorso di Die theorie von allem di Timm Kröger, che un decennio fa o poco meno si fece notare alla Settimana Internazionale della Critica con il suo bellissimo esordio The Council of Birds (Zerrumpelt Herz). Una speranza europea per il futuro.